lunedì 27 giugno 2005

.::Globalizzazione e migrazioni: ipotesi a confronto


Immagini dal reportage "illegal portraits" sull'immigrazione haitiana in Repubblica Dominicana. La mostra verrà esposta per tutto il mese di luglio 2005 nel Centro sociale di Fregona.

Una conferenza per capire meglio il fenomeno mondiale delle migrazioni, arricchito da uno speciale collegamento con la frontiera tra Repubblica Dominicana e Haiti.
In video conferenza participeranno:

- Regino Martínez Bretón sj., Direttore di Solidaridad Fronteriza/SJRM
- Lissaint Antoine sj., Direttore di Solidarite Fwontalyè/SJRM;
- Gianni Dal Mas, Consulente per l’Ufficio Comunicazione e Diritti Umani di Solidaridad Fronteriza/Solidarite Fwontalyè.

28 GIUGNO 2005 - ore 20.45
CENTRO SOCIALE di FREGONA (TV) - ITALIA


Parteciperanno in sala:


- Edgar Serrano, Manager didattico del corso di laurea in Cooperazione allo sviluppo, Università di Padova
- Giuliano Giorio, già Ordinario di sociologia, Università di Trieste
- Ndayishimiye Petrose, Mediatrice culturale ed ex giornalista del Burundi

Patrocinio del Comune di Fregona - Gruppo giovani
Informazioni: Tel. +39 - 0438 - 585890

giovedì 23 giugno 2005

.::Repubblica Dominicana e Haiti: tra espulsioni di massa e diritti umani


13-15 maggio 2005: vengono espulsi in massa oltre 2000 haitiani

Se in Italia vedete passare tre camion pieni zeppi di persone, donne e bambini con gli occhi sbarrati, vestiti alla meno peggio e senza niente nelle mani, immaginereste che ci sia qualcosa che non va. Se invece vi trovate in Repubblica Dominicana, nelle vicinanze della frontiera con Haiti, ne sareste certi: quei tre camion sono il segnale che stanno di nuovo rimpatriando in massa gli haitiani.
Ci sono momenti in cui un haitiano che sta camminando per strada o se ne sta chiuso in casa, che abbia un permesso legale di soggiorno o sia “clandestino”, viene preso e fatto salire con la forza insieme a tanti suoi connazionali su un camion dell’esercito e spedito al primo valico di frontiera per essere rimpatriato ad Haiti, senza tanti giri di parole e tanto meno un decreto formale di espulsione.
Questa volta, il 13, 14 e 15 maggio del 2005, quei tre camion sono diventati 4, 5, 10, 20: in tre giorni sono state espulse dal valico di Dajabón, nella zona nord dell’isola, piú di 2000 persone, haitiani e dominicani di origine haitiana.

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In quest’isola bizzarra, l’unica al mondo divisa tra due stati indipendenti e nemici da quasi due secoli, queste cose sono all’ordine del giorno: tra la Repubblica Dominicana, paradiso dei Caraibi, e Haiti, il paese piú povero dell’emisfero occidentale, i rimpatri di massa sono diventati una prassi che ogni buon governo dominicano deve realizzare almeno una volta nella legislatura, per tutta una serie di “buone ragioni”.

Questa volta, la buona ragione “apparente” è stato l’ennesimo fatto di sangue imputato a un haitiano: la morte di una dominicana durante un tentato furto nella localitá di Hatillo Palma, nella zona nord dell’isola, ha fatto scattare la furia dei concittadini, che si sono subito scagliati contro gli haitiani residenti nella zona, per lo piú lavoratori immigrati e dominicani di origine haitiana. Al grido “Non piú un solo haitiano ad Hatillo Palma”, la direzione generale per l’immigrazione, con l’aiuto logistico e repressivo dell’esercito, ha iniziato un’operazione militare indiscriminata che ha visto come vittime vecchi, donne e bambini, insieme a lavoratori clandestini e non.

In soli tre giorni, sul confine dominico-haitiano di Dajabón (RD) – Wanament (Haiti), il Servizio gesuita per i rifugiati e i migranti (SJRM) ha prestato aiuto a 1598 persone attraverso l’ong Solidaridad Fronteriza, ma le persone espulse massivamente dalle autoritá dominicane sono state oltre 2000.



Se in un primo momento si era parlato di un’operazione a difesa degli stranieri dalle possibili rappresaglie della popolazione di Hatillo Palma per l’omicidio della dominicana Maritza Nuñez, i rastrellamenti effettuati in tutta la provincia avevano fatto poi capire la vera dimensione del problema. I militari si introducevano nelle case degli immigrati e dei dominicani di origine haitiana alle 5 del mattino, abbattendo le porte con i fucili alla mano: venivano svegliati e caricati a forza nei camion, senza dare loro il tempo di raccogliere le proprie cose, a volte scalzi e senza prestare attenzione a chi presentava i documenti legali che gli davano il diritto di rimanere in territorio dominicano. In quei tre giorni è stata violata una serie infinita di normative internazionali in tema di rimpatrio e di tutela dei diritti umani del migrante, oltre ad uno specifico accordo siglato nel 1999 tra i due stati dell’isola per regolamentare le espulsioni degli “irregolari”. L’ultima grande espulsione di massa era avvenuta proprio nel 1999.

Pur rispettando il diritto di ogni stato di espellere gli immigrati “clandestini” presenti sul proprio territorio, non potevamo accettare che ció avvenisse in aperta violazione dei diritti umani piú fondamentali: alla frontiera venivano portate famiglie intere che avevano dovuto lasciare dietro di sé tutto il lavoro di una vita; madri separate dai propri figli; figli separati dai propri genitori; lavoratori che non avevano avuto il tempo di ricevere l’ultimo stipendio prima di essere espulsi; vecchi che avevano lasciato i risparmi di trent’anni sotto un materasso, diventato poi bottino degli sciacalli.

Immediatamente abbiamo denunciato a livello nazionale e internazionale l’operato illegittimo delle autoritá dominicane, mettendo il governo con le spalle al muro grazie a una dettagliata documentazione fotografica delle violazioni commesse. Il sito internet di Solidaridad Fronteriza è servito da cassa di risonanza mostrando il modo in cui si stavano realizzando le espulsioni: a quel punto nessun membro del governo poteva piú negare che si stessero rimpatriando bambini separati dalla famiglia o lavoratori con permesso di soggiorno o dominicani dalla pelle nera con i documenti alla mano.


Le tre copertine de El Caribe, il giornale piú venduto nella Repubblica Dominicana, con le foto fatte da Solidaridad Fronteriza

Grazie alla pressione esercitata dall’opinione pubblica, il governo é stato costretto ad interrompere l’operazione, ma la situazione, a piú di un mese dai fatti, è lontana dall’essere risolta.


La Storia.

La questione dominico-haitiana non è facile, né da spiegare né da risolvere. Gli attriti fra i due stati e fra i due popoli sono vecchi di secoli, da quando gli ex-schiavi africani che popolavano Haiti si sono ribellati al potere francese, diventando nel 1804 la prima repubblica nera libera al mondo.
Successivamente, avevano cercato di “liberare” la parte orientale dell’isola, allora occupata dalla Spagna. I dominicani la ricordano come una delle epoche piú crudeli: 22 anni di schiavitú sotto il controllo dei vicini haitiani.
Riconquistata l’indipendenza, ogni governo dominicano, “democratico” o dittatoriale che fosse, ha fomentato l’odio contro Haiti, e i vari dittatori haitiani hanno fatto lo stesso con i dominicani.
Cosí, per decenni, i rapporti sono stati essenzialmente dettati da interessi economici semi-occulti, i cui grandi beneficiari sono state le grandi aziende statali controllate dagli uomini forti di Santo Domingo e Port-au-Prince: Rafael Leonidas Trujillo in Repubblica Dominicana e la famiglia Duvalier ad Haiti.


Dalla canna da zucchero al caffè, dal settore turistico all’edilizia, i lavoratori migranti haitiani hanno occupato buona parte dei posti di lavoro dove la forza fisica e lo stipendio da fame siano le caratteristiche decisive. Si calcola che oggi, su un totale di 9 milioni di dominicani, ci siano quasi 900 mila haitiani e loro discendenti.


Il Problema

Cosa farne di tutte queste migliaia di haitiani che vivono illegalmente in Repubblica Dominicana da piú di dieci, venti o addirittura quarant’anni? E cosa farne dei loro figli, che l’articolo 11 della Costituzione dominicana riconosce come cittadini dominicani per il solo fatto di essere nati nel territorio nazionale, mentre le autoritá continuano a negare loro atti di nascita, documenti e passaporti solo perché i loro genitori sono neri?

Il rimpatrio di massa messo in atto dal governo poteva davvero essere la soluzione a tutto questo? Il Servizio gesuita per i rifugiati crede che la Repubblica Dominicana stia manifestando una specie di “doppia morale”:



- da una parte, favorisce l’entrata della manodopera haitiana illegale e a basso costo, risorsa vitale per un’economia che si basa sull’esportazione delle banane, il cui prezzo internazionale è altamente sensibile;

- dall’altra, espelle in massa gli haitiani per motivi razziali, anche
se il dominicano, orgoglioso delle sue lontane origini spagnole, si rifiuta (ovviamente) di essere accusato di razzismo.


Sta di fatto che la maggior parte delle persone espulse tra il 13 e il 15 di maggio hanno già fatto ritorno al territorio dominicano ricorrendo a vie illegali, con la complicitá delle autoritá militari e civili preposte al controllo della frontiera con Haiti, le quali si arricchiscono grazie a questo continuo traffico di persone.
La piú grande espulsione di massa degli ultimi 5 anni non ha quindi risolto il “problema haitiano” in Repubblica Dominicana, e non lo farà finché non si stabilirá una politica migratoria chiara, che rispetti allo stesso tempo le necessitá produttive dell’economia nazionale e i diritti dei lavoratori migranti.

Finchè Haiti continuerà ad essere il paese piú povero della regione, ci sará sempre una pressione migratoria sulla frontiera con la Repubblica Dominicana, ma se le autoritá non daranno una risposta in tempi brevi, il rischio è che la popolazione prenda l’iniziativa sulla base di impulsi irrazionali: a 28 giorni di distanza dall’omicidio di Maritza Nuñez, due haitiani sono stati uccisi per rappresaglia nella notte tra il 5 e il 6 di giugno da un gruppo di dominicani, tra i quali era presente il cognato di Maritza. Il grido: “Non piú un solo haitiano ad Hatillo Palma” è diventato reale e la sua eco sta risuonando in molte altre comunitá dominicane: ad ogni fatto di sangue, ad ogni delitto commesso da ignoti, scatta la caccia all’haitiano.

Il paese intero sta chiedendo al governo che risolva la “questione haitiana”: a chi continua a chiedere il rimpatrio massivo di ogni illegale haitiano, rispondiamo che ció deve avvenire rispettando le leggi nazionali e internazionali in materia e soprattutto la dignità di ogni persona. Nessuna soluzione sommaria sará mai una soluzione vera.

martedì 21 giugno 2005

CONTATTO

Ecco la mappa per venire a visitare la frontiera dominico-haitiana:


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Per contatti, informazioni ulteriori e suggerimenti per il sito:

® giannidalmas

Centro Puente/Sant Pon
c/Pres. Herniquez n.67,
Dajabón, República Dominicana


Cell: + 1 - 809 - 481 - 2623

Uff.: + 1 - 809 - 579-7379

E-mail: giannidalmas@gmail.com

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lunedì 20 giugno 2005

¿CHI SONO?

...un po’ fotografo, un po’ operatore umanitario e, soprattutto, sempre piú un giornalista a spasso...

In questo miscuglio di professioni mi sono immerso nel 2002, quando ho deciso di abbandonare l’attivitá di rappresentante commerciale per un qualcosa che mi facesse sentire un po’ piú utile al mondo, o per lo meno a qualcuno che avesse bisogno di una mano.
Ho iniziato cosí l’attivitá di pubblicista e la prima esperienza nella cooperazione, proprio qui, sulla frontiera dominico-haitiana. Tre mesi caldissimi, spesi come volontario per le organizzazioni di base, aiutandole a migliorare il loro rapporto con i media e la comunicazione in generale.

La comunicazione usata come mezzo di denuncia

delle violazioni dei diritti umani, la comunicazione come strumento nelle mani di coloro che vogliono tracciare il “proprio” percorso verso lo sviluppo.

Al ritorno in Italia le idee mi si sono fatte piú chiare: la specializzazione in diritti umani e il tirocinio da giornalista erano le tappe necessarie per completare una formazione rimasta ai blocchi della vecchia laurea in Scienze Politiche. Un paio d’anni sofferti, a fare il metalmeccanico e il guardiano notturno per pagarmi gli studi, e poi gli incarichi “piú comodi” come responsabile della comunicazione di alcune istituzioni (che hanno saputo darmi tantissimo).

Nel frattempo, per non perdere l’animo e l’istinto della foto, un’esperienza in Georgia, nell’inverno caucasico, per un reportage sui bambini di strada di Tbilisi. Gli occhi di quei bambini, i loro giochi, il riscaldamento che da oltre un mese non arrivava perché il governo non aveva pagato “la bolletta del gas” al vicino Turkmenistan. Sicuramente l’esperienza piú intensa di questi ultimi anni.

Passato il freddo, i corsi di specializzazione e l’agognato tesserino dell’ordine dei giornalisti, era arrivato il momento di ripartire.

Ho lasciato l’Italia di domenica, la mattina del 10 ottobre del 2004.
Una ong di Londra voleva un “Advisor on communications and human rights” da mandare sulla frontiera dominico-haitiana.
Ho risposto di sì all’appello, anche se da allora continuo a sentirmi un po’ fotografo, un po’ operatore umanitario e soprattutto, sempre piú un giornalista a spasso...





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mercoledì 18 maggio 2005

.::ESPULSIONI DI MASSA SULLA FRONTIERA
.::DOMINICO-HAITIANA


Rifugiati attraversano le acque del Rio Masacre per arrivare sulla riva haitiana

In attesa di fornire una testimonianza in italiano degli avvenimenti, riporto i due lanci fatti dalla MISNA sulla base dei nostri comunicati stampa.
Maggiori informazioni e soprattutto il reportage fotografico delle operazioni militari di espulsione sono disponibili sul sito dell'ong:
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Dall'agenzia di stampa: MISNA
REP.DOMINICANA 17/5/2005 15:09
ESPULSIONI MASSICCE DI HAITIANI
Peace/Justice, Brief
Migliaia di persone originarie di Haiti vengono espulse in questi giorni dalla Repubblica dominicana dopo l’omicidio del 9 maggio scorso di un commerciante domenicano a Hatillo Palma, nel nordovest del Paese, commesso da presunti haitiani.
Come riferiscono due organismi umanitari - il Garr (Gruppo d’appoggio a rimpatriati e rifugiati), con sede a Haiti, e Solidaridad Fronteriza, affiliata al Jesuit Refugee Service, Servizio dei gesuiti per i rifugiati –la comunità locale ha scatenato una sorta di caccia all’haitiano e sta chiedendo alle autorità di espellere gli originari di Haiti per evitare nuove morti.
Secondo padre Regino Martinez, direttore di Solidaridad Fronteriza a Dajabón, sono circa 2.000 gli haitiani e i dominicani di origine haitiana, tra cui molte donne e bambini, costretti con la forza a lasciare la Repubblica Dominicana. Molti, prosegue il sacerdote, sono stati arrestati nella zona di Mao, nel nord della Repubblica Dominicana, e condotti alla frontiera, in maggioranza a piedi nudi, senza nemmeno avere il tempo di raccogliere le proprie cose.
Sempre secondo il gesuita, non si è tenuto alcun conto della loro età né del numero di anni trascorsi in Repubblica Dominicana. Agli espulsi è stato detto che dovevano rimpatriare per una verifica della loro nazionalità.
La città frontaliera di Ouanaminthe, nel nord di Haiti, si trova in uno stato di emergenza di fronte all’arrivo massiccio degli espulsi, ai quali tra l’altro mancano servizi essenziali come acqua, elettricità e medicine. Per Solidaridad Fronteriza, le autorità dominicane hanno una "doppia morale", perché da una parte espellono regolarmente gli haitiani, dall’altra se ne servono come manodopera a buon mercato.
Le due organizzazioni a difesa dei rifugiati sostengono che le espulsioni in massa non rispettano le convenzioni internazionali in materia di rimpatrio né gli accordi bilaterali in vigore trai Paesi vicini.[LM]

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REP.DOMINICANA 18/5/2005 16:02
ESPULSIONI FORZATE HAITIANI, EMERGENZA LUNGO LA FRONTIERA
Peace/Justice, Brief

I rimpatri forzati sono interrotti, ma ci troviamo in una situazione d’emergenza difficile da gestire. Circa 2.000 persone sono state espulse e si trovano ora qui a Ouanaminthe, lungo la frontiera settentrionale tra Haiti e Repubblica Dominicana, dove mancano le adeguate misure di accoglienza” ha detto alla MISNA Lissaint Antoine, direttore del consiglio di Solidaridad Fronteriza, affiliata al Jesuit Refugee Service, Servizio dei gesuiti per i rifugiati.

“Nei centri d’accoglienza che abbiamo allestito nelle nostre strutture abbiamo accolto più di 1.400 espulsi, ai quali abbiamo assicurato volontariamente un’assistenza d’emergenza. Ora stiamo cercando di aiutarli a raggiungere i loro villaggi d’origine” aggiunge Antoine, secondo cui “l’unica ‘buona notizia’ è che un gruppo di 53 dominicani espulsi dal loro Paese senza ragione, probabilmente per errore in quanto hanno la pelle nera come gli haitiani, sono potuti rientrare in patria; ma c’è ancora un gruppo di 38 persone bloccate cui viene impedito di rientrare nella Repubblica Dominicana, sebbene abbiano tutti i documenti in regola”.
Tutto è cominciato tre giorni fa, quando almeno 2.000 persone originarie di Haiti sono state espulse dalla Repubblica Dominicana dopo l’omicidio del 9 maggio scorso di un commerciante domenicano a Hatillo Palma, nel nord-ovest del Paese, forse commesso da haitiani.
Per evitare nuovi morti e una escalation di violenza, il governo ha deciso di rimpatriare forzatamente gli haitiani considerati irregolari, compresi bambini e donne.
Dal primo momento Solidaridad Fronteriza ha denunciato il carattere illegale di queste deportazioni, effettuato in violazione del protocollo d’intenti in vigore tra i due Paesi.
Alcune migliaia di haitiani hanno attraversato illegalmente la frontiera con la Repubblica Dominicana nell’ultimo anno, per tentare di sfuggire alla situazione d’insicurezza e alla povertà, diventate ancora maggiori dopo la caduta del governo di Jean Bertrand Aristide, nel febbraio dell’anno scorso. Da allora sono notevolmente aumentati anche i traffici illegali attraverso la comune frontiera, creando una situazione d’allarme nelle autorità dominicane.[LL]

mercoledì 4 maggio 2005

.::Repubblica Dominicana: parole di Ettore Mó, foto di Luigi Baldelli


Sotto lo sguardo di Ettore Mó, gli haitiani attraversano illegalmente all'alba le acque del Rio Masacre per arrivare in territorio dominicano

L’appuntamento era alle 6 e mezzo all'Hotel Intercontinental di Santo Domingo: insieme ad Alicia dovevo incontrare "Ettore"... così l'aveva chiamato Luigi, il fotografo del Corriere della Sera che mi aveva chiamato per avere alcune informazioni sulle piantagioni di canna da zucchero della Repubblica Dominicana.
Alicia, cooperante spagnola che avevo conosciuto tre anni fa, nella mia prima visita in RD, a dieci minuti dalla partenza mi disse estasiata: "È Ettore... Ettore Mó! Mia cognata, che fa la giornalista per City Milano, quasi le è venuto un infarto quando ha saputo che ieri pomeriggio ho accompagnato Ettore Mó in giro per i batey!".


Che dire? A me è quasi venuto un infarto solo poche ore dopo di lei! Ettore e Luigi erano quei due giornalisti italiani, fino ad allora rimasti anonimi, che il Servizio gesuita per i rifugiati di Santo Domingo mi voleva affidare solo per questioni di affinitá linguistiche! In meno di un secondo la lingua mi si era impastata, mancava poco per l’incontro con Ettore e il compito mi era sembrato chiaro fin dal principio: convincere lui e il fotografo ad allargare il reportage alla zona di frontiera dove sto lavorando, fargli conoscere la difficile situazione del nord e farla conoscere in Italia. Loro erano il Corriere della Sera!

All’Intercontinental lo chiamai direttamente dall'house phone: Ettore rispose gentile e scese, con addosso un gilet pieno di tasche che consacrava la sua immagine di reporter internazionale. Si scusó subito per l'assenza di Luigi, ma quella mattina era rimasto per 4 ore sotto il sole con la macchina in panne e duecento kilometri quadrati di canna da zucchero tutto intorno a lui.
Ettore invece era tranquillo, seduto sul divano in pelle della hall, e ascoltava in silenzio tutte le buone ragioni che subito gli offrí per convincerlo a venire fino a Dajabón. Quella mattina aveva incontrato il Cardinale di Santo Domingo, Nicolas de Jesús, e pure il nostro Chepe, direttore per l'America Latina e i Caraibi del Servizio gesuita per i rifugiati (SJR). Era rimasto soddisfatto, ma voleva vedere qualcosa in piú, dopo aver visto le difficili condizioni in cui vivono gli “schiavi moderni” delle piantagioni di San Pedro de Macoris.

Quel qualcosa in piú io lo conoscevo per nome: si chiamava Dajabón, si chiamava Barahona, si chiamava Pedro Ruquoy (quel missionario belga che nel 2002 mi aveva accolto a braccia aperte per il mio primo reportage fotografico). Bastó illustrargli quello che avrebbe visto e proporgli un itinerario: il fiuto di Ettore fece il resto. «Lasciatemi un paio d’ore per parlarne con Luigi e per avvisare il Corriere: pensavamo di proseguire il viaggio per il Perú, ma forse é meglio che annulliamo il volo e facciamo le cose per bene». Non c’era bisogno di aggiungere altro, cosí Ettore ci salutó con l’obbligo di rivederci a cena: erano da poco passate le sette, il malecon di Santo Domingo stava accendendo le luci della sera e a me non sembrava vero.

A cena conoscemmo finalmente Luigi Baldelli, da dieci anni fotografo fisso di Ettore Mó: le fettuccine e il buon vino italiano (introvabile nella mia lontana Dajabón!) accompagnarono i loro racconti di viaggio, i ricordi dell’Afganistan devastato dalla guerra e le immagini del Messico che attendeva l’arrivo di quel papa polacco appena eletto al soglio pontificio. Ritornavamo indietro nel tempo: Ettore era la storia del giornalismo che non avavo mai studiato sui libri dell’universitá.

Il giorno dopo partirono per Port-au-Prince, e la settimana dopo arrivarono finalmente a Dajabón: avevo riservato loro un paio di stanze nel miglior hotel della cittá, l’Hotel Masacre. Fra i tanti, era l’unico che si avvicinasse all’idea di hotel che un italiano puó avere. Leggendo il suo reportage mi resi conto di quanto fu importante quella scelta: leggendo il suo reportage, trovo la risposta a quanti mi chiedono continuamente «perché sei finito su quell’isola?».
Eccolo!


Machete e miseria, gli schiavi dello zucchero

(dal Corriere della Sera del 1-05-2005, pag. 14)



Nelle piantagioni della Repubblica Dominicana dove i profughi haitiani lavorano per tre dollari al giorno

Dietro la facciata di paradiso turistico, nel Paese si aprono fossati di miseria in cui affondano soprattutto gli haitiani che ogni giorno varcano a centinaia la frontiera in cerca di lavoro. Qui molti ancora ricordano la strage del 1937, quando il dittatore Trujillo fece uccidere migliaia di immigrati. Una «mattanza» oggi impossibile, anche se i problemi tra Santo Domingo e Port-au-Prince rimangono. Nei campi di canna da zucchero la quasi totalità dei tagliatori è costituita dai profughi, un popolo senza diritti che vive in condizioni atroci.


DAJABÒN (Repubblica Dominicana) — Non m’era mai capitato finora, girando il mondo, di scendere in un albergo dal nome tanto... suggestivo, Hotel del masacre. L’Hotel del Massacro sorge a Dajabòn, città di confine tra la Repubblica Dominicana e Haiti, sfiorata dalle acque di un fiume chiamato, altrettanto impietosamente, Rio del masacre.

In ambedue i casi, la cupa definizione si riferisce alla strage compiuta il due, tre e quattro ottobre del 1937, quando il dittatore Rafael Leonidas Trujillo fece uccidere qui e in altre parti del Paese migliaia di immigrati haitiani. Le cronache del tempo discordano nel computo delle vittime, che oscillerebbe da un minimo di quattromila morti a un massimo di ventimila. Ma hanno un poco esagerato definendo anche le varie portate del menù delicias (delizie) del massacro. Una tragedia lontana nel tempo, ma che i bambini e gli adolescenti d’allora—oggi tra i sessanta e gli ottant’anni—non riescono a dimenticare.

Tuttavia, anche se lo scenario politico attuale è diverso da quello degli anni ’30 e nessuno potrebbe immaginarsi una «mattanza» di simili dimensioni, il problema degli haitiani che ogni giorno varcano a centinaia il confine in cerca di lavoro è più che mai vivo e resta fonte inesauribile d’incomprensioni e di conflitti tra Santo Domingo e Port-au-Prince. Per chi fa la spola da una capitale all’altra è facile notare la diversità del tenore di vita, ma non deve trarre in inganno la Repubblica Dominicana perché dietro la facciata di paradiso turistico con spiagge dorate e giochi erotici esercitati in gran parte dalla prostituzione minorile — ragazzine e maschietti — si aprono fossati di miseria, disperazione, squilibri sociali: in cui affondano soprattutto gli haitiani.

È una realtà che balza cruda agli occhi nelle immense piantagioni di canna da zucchero, che per oltre un secolo sono state la principale fonte di ricchezza del Paese, dove la quasi totalità dei braceros—così sono chiamati i tagliatori muniti di machete — è costituita da tanta povera gente fuggita dalla propria terra, Haiti appunto, per poter semplicemente sopravvivere. Per il colore della pelle — sono discendenti degli schiavi africani portati in catene nei Caraibi dal ’600 in poi —, i dominicani li chiamano anche Congos, come volessero ricordar loro che «l’era della schiavitù» non è del tutto scomparsa. In realtà, gli mancano solo le catene: ma le condizioni in cui vivono e lavorano durante i sei-sette mesi della «zafra» — il tempo del raccolto— sono penose, per non dire atroci.

Le denunce però non servono. Nessun tribunale dei diritti umani è finora riuscito a svolgere una consistente pressione o azione di protesta contro un sistema che è eufemistico definire medioevale. I Congos cominciano a tirar fendenti sulle canne alle 6 del mattino e finiscono a sera verso le 18 o anche le 20, inebetiti dalla fatica e dal sole, non di rado feroce in queste latitudini. I salari sono molto bassi e spesso inadeguati rispetto alla quantità del materiale accumulato, ma il tagliatore non ha voce in capitolo, è l’azienda a stabilirlo. I lavoratori vivono nei cosiddetti «bateys», specie di minuscoli villaggi con catapecchie di legno ai margini della piantagione, senza luce né acqua corrente e quasi tutte senza finestre. Se chiudi la porta, è notte anche di giorno.

Intraprendo un viaggio dentro questa sofferenza, zigzagando in macchina da Nord a Sud, da Est a Ovest, facendo sosta ovunque risuonino i colpi del machete. A Consuelito, in località San Pedro de Macoris, m’imbatto in Luis, un vecchio lungo lungo magro magro, seduto nel suo andro, quasi immobile, come pietrificato. Ha 89 anni e non può più lavorare. Approdò in questo «batey» nel ’68 e non si è più mosso. Non percepisce un soldo di pensione, i «padroni non hanno provveduto». È solo. Dice di aver conosciuto la fame, ora conosce la solitudine. Il buco in cui vive è l’anticamera della morte: nere le pareti, nero il soffitto, sulla branda un paio di ciabatte nere di plastica. Dice anche d’aver fiducia in Dio.

Il continuo, frenetico flusso migratorio degli haitiani verso la Repubblica Dominicana è stato in gran parte determinato dalla situazione economica: ma non sono neanche mancati, in alcuni periodi, i profughi che hanno abbandonato il Paese per ragioni politiche, come avvenne dal 1957 all’86 durante la dittatura di Duvalier o dal 1991 al ’94 in seguito alla brutale repressione del regime di Cedras. Oggi, il totale degli immigrati haitiani sul territorio della Repubblica dovrebbe aggirarsi intorno ai 380 mila (meno del 5% rispetto alla popolazione dominicana) e non di mezzo milione come è stato spesso sostenuto in base a dati «gonfiati»; ad arginare il numero hanno indubbiamente contribuito le deportazioni degli immigrati illegali (che sono la maggioranza) al ritmo, secondo sondaggi recenti, di circa 10 mila l’anno.

Ad esacerbare l’animo degli haitiani non sono soltanto le condizioni disumane del lavoro ma anche il fatto che viene loro negata la nazionalità dominicana, cui, secondo la Costituzione, avrebbero diritto, anche se nati da genitori haitiani, da tempo residenti nella R.D. Ciò li pone nella situazione di apolidi, privandoli dei documenti d’identità e di tutti i certificati necessari per condurre un’esistenza normale nella società. Essi sono — ha scritto qualcuno — dei «morti civili»: definizione che Bridget Wooding, una signora inglese trapiantata a Santo Domingo dove si occupa di diritti umani e problemi sociali, spiega molto bene in un suo libro, «Needed but unwanted», di cui traduco approssimativamente il senso: i dominicani hanno bisogno degli haitiani (per lo sviluppo della loro economia) ma allo stesso tempo non li vogliono.

Ma al posto di frontiera di Dajabòn, nel tratto di confine nordoccidentale, c’è un gran trambusto il venerdì — giorno di mercato— quando migliaia di haitiani si precipitano al mattino presto in territorio dominicano attraverso il ponte, non appena si apre la barriera, o sotto il ponte, guadando il fatidico fiume Massacro, che nel ’37 si riempì di cadaveri e sangue. Ognuno ha in testa un grosso fagotto dove c’è roba da vendere al mercato — vestiti, scarpe usate, ortaggi, frutta — o pile di cassette d’uova, infilate l’una nell’altra, ma sempre in meraviglioso equilibrio nonostante gli scossoni e l’ondeggiare della folla. Chi passa sotto il ponte e non vuole bagnarsi i piedi o le scarpe ricorre all’uomo-cavallo, che lo traghetta in spalla sull’altra sponda. Di tanto in tanto, i doganieri fermano bruscamente qualcuno e frugano nel bagaglio, caso mai ci fosse merce proibita e pregiata, come droga, abbondante da queste parti.

Questa atmosfera festaiola del giorno di mercato consente un provvisorio respiro di sollievo a una contrada che, dopo un passato cruento, dove ora affrontare una situazione di estremo disagio: «Qui — spiega Gianni, esponente del Servicio Jesuita a Refugiados y Migrantes, organizzazione internazionale della Compagnia di Gesù impegnata ad assistere immigrati e profughi in zona frontaliera — vivono 88 mila persone senza né acqua né elettricità e registriamo il 36 per cento della mortalità infantile». L’infanzia non versa in condizioni migliori che ad Haiti e i bambini haitiani nati nella Repubblica non hanno facile accesso alla scuola non avendo i documenti necessari, che del resto i genitori non richiedono per paura di essere deportati.

Molti di loro vivono per strada, come i gatti e i colombi, e sono infatti chiamati las palomas, spesso vittime di abusi sessuali consumati non di rado in famiglia. Non dico la sorpresa quando mi sono imbattuto, qui a Dajabòn, in un altro italiano — Gino, semplicementeche ha abbandonato la sua città, Alba, la casa e il lavoro per dar vita ad un’associazione che si occupa di «palomas» dai 4 ai 12 anni: «Ne ho reclutati 153 — dice — e penso al loro presente e al futuro. Abbiamo medici, infermiere, due maestre, un pediatra».

Il collasso dell’industria della canna da zucchero, di proprietà dello Stato fino alla privatizzazioni del ’99, cambiò gradualmente il destino degli immigrati haitiani che a poco a poco abbandonarono i «bateys» e la dura vita rurale nelle piantagioni per trasferirsi nei centri urbani e dedicarsi a nuove occupazioni, nell’edilizia, nel commercio, nel lavoro domestico, nei trasporti, ovunque fosse possibile raggranellare un salario decente. E hanno appeso al chiodo il machete. Ma se il collasso dell’industria cañadera, provocato alla fine degli anni ’80 dal calo del prezzo dello zucchero nel mondo, ha portato mutamenti sostanziali nella vita dei 500 «bateys» sparsi sul territorio nazionale, essi non hanno corso certo il rischio dell’estinzione, come forse qualcuno paventava.

Ed è valsa la pena di fare una passeggiata fino a Barahona, località del Meridione affacciata sul Mar dei Caraibi, dov’è appena cominciata la «zafra»(il raccolto) e i 18 «bateys» della zona sembrano colti da frenesia. Ci abitano circa 25 mila tagliatori (o picadores) con le relative famiglie che dipendono, sia per la vita spirituale che materiale, da un estroso, zelante sacerdote di origine belga (Charleroi) sbarcato nella Repubblica Dominicana nel ’75, a 23 anni, aggregato al Servicio Jesuita a Refugiados y Migrantes, giornalista e direttore di programmazione di Radio Enriquillo. Insomma, non sta fermo un minuto, don Pedro Ruquoy. «Qui c’è la miglior canna da zucchero del Paese—dice portandoci in visita nei "bateys" che hanno nomi rasserenanti, come Isabelle o Santa Maria —: ma oltre ai picadores o Congos c’è anche gente che lavora nelle piantagioni di caffè».

Al «batey» numero 5 c’è il pago, è giornata di paga. Ma quasi tutti imprecano e si lamentano perché il salario non corrisponde alle ore di lavoro fatte né alla quantità (in tonnellate) della canna tagliata. Il salario medio—apprendo—è di 70-80 pesos al giorno, poco meno di 3 dollari: e Riccardo Yiben — 58 anni con 40 di machete nelle braccia e la faccia di cuoio stagionato cotta dal sole —va su tutte le furie quando scopre d’essere stato compensato per una sola giornata mentre ne ha fatte due o tre. «Hanno ragione di protestare—dice il gesuita — È un’ingiustizia. Una tonnellata di canna da zucchero, tanti pesos. Mai dirigenti valutano la quantità a occhio e poi la pesano all’interno della fabbrica e i picadores non hanno alcuna possibilità di verifica e tanto meno di negoziare il prezzo del proprio lavoro». Chi guida il trattore lavora 12 ore al giorno, tutti i giorni, domenica compresa, ma lo pagano solo per 8 ore. Niente straordinari.

I dominicani sono in prevalenza cattolici (95%), ma nei «bateys» della zona attorno a Barahona, che comprende le provincie di Bahoruco e Independencia, gli immigrati haitiani celebrano anche i riti voodoo e padre Pierre (così lo chiama chi sa il francese) si premura di mostrarci le capanne dove regolarmente si svolgono: qui si celebra lo spirito della fertilità, il cui sacerdote — ora defunto— ha avuto 54 figli; mentre in un altro tugurio, tra lampade, candele, oggetti vari del culto animista dell’Africa Occidentale, è di casa lo spirito della morte. Oserei dire che è la tolleranza lo spirito che si addice a Pedro-Pièrre-Ruquoy: parla con rispetto del voodoo e non sembra per nulla turbato dal fatto che tra i suoi parrocchiani ci sia una «capessa» del «batey» numero 9, chiamata la Rossa, che vive more uxorio con due altre signore o che sui banchi della sua cappella s’inginocchi regolarmente un travestito in tutta la sua provocatoria eleganza.

Oggi, domenica, messa cantata nella chiesa della «Vergine dei dolori», «batey» numero due. I canti liturgici sono accompagnati dalla percussione di due bongo che hanno un suono molto africano. Il soffitto della cappella è rivestito da canne da zucchero. Nella lettura dei passi del Vangelo, il parroco passa con disinvoltura dallo spagnolo al creolo. Tra i fedeli manca la nutrita rappresentanza dei braceros che dalle 6 del mattino stanno faticando nei campi: «Non è una questione di fede — fanno sapere —: è che non possiamo permetterci di perdere una giornata di lavoro. Il padre lo capisce». Da queste parti, anche Cristo è un bracero e lo portano in processione il primo giorno della «zafra». È un Cristo di legno di pelle scura, un Cristo haitiano, il corpo appeso alla croce lacerato dalle piaghe della fatica: e dietro le gambe gli hanno pure infilato un machete.

domenica 17 aprile 2005

.::L'intervista (2)

>>> leggi .::L'intervista (1)


Christian Jean e il rancho dove vive con gli altri braccianti

1.
Ci avvicinavamo sempre piú alla capanna dal tetto di paglia, il famoso rancho, la casa di tutti gli haitiani che lavorano nei campi dominicani. Eravamo solo a pochi metri quando ci siamo accorti che si trovava dall’altra parte del canale: per arrivarci bisognava attraversare un ponte fatto di pali e sacchi di sabbia.
Alejandro mi batte sulla spalla indicandomi un punto dove fermarmi: attraversarlo in due, sulla moto, neanche morti. Per fortuna lui ha la vista buona, e laggiú, lungo la strada che fiancheggia il canale dalla nostra parte, riconosce una moto, sicuramente quella di don Ramón. Solo il padrone puó avere la moto, pensavamo.
Spegniamo il motore prima di oltrepassare una tubatura che attraversava di netto la strada: sulla destra sbuffa una vecchia pompa idraulica intenta a spingere l’acqua del canale dentro la risaia. Pochi metri a piedi e raggiungiamo il padrone della moto: Alejandro gli rivolge un saluto, ma la risposta non si sente. Quasi come non ci fossimo, continua a spostare grosse manciate di fango per far defluire l’acqua e poi, sempre a testa bassa, ci chiede cosa stiamo cercando. «Don Ramón, don Ramón Tapia Monción, il padrone della risaia», ripete Alejandro, alzando un po’ la voce.
Nessuna reazione: fissando con lo sguardo i mulinelli d’acqua tra i suoi stivaloni alti, ci dice che dobbiamo tornare un altro giorno, don Ramón é andato in paese per degli affari.
Alejandro non fa un passo, e dopo un attimo, quell’uomo che stava quasi immerso nel fango e con la mani piene di una melma nera come la pece, sussurró: “Perché lo cercate?”. Alejandro mi lancia allora un’occhiata e un mezzo sorriso: sembrava che sapesse tutto fin dall’inizio, e anch’io non c’ho messo molto a ripensare a quelle vecchie scene dei film western. Quando iniziamo a spiegare la storia dell’haitiano al quale avevano rubato 40 mila pesos, don Ramón (proprio lui) scopre le carte: “Soy yo”.
Come rassegnato a dover parlare, comincia a risciacquarsi le mani e ad avvicinarsi all’argine. Io preparo la macchina fotografica e, guardando la borsa appoggiata ai miei piedi, vedo i pantaloni ricoperti di tante piccole macchie nere: venti, trenta zanzare per gamba se ne stavano lí tranquille, come se sapessero giá che i pantaloni non sarebbero stati un vero ostacolo. Me le sono scrollate di dosso un paio di volte, senza effetto: per tutta la durata dell’intervista ho ripensato al 2002, quando ancora credevo alla bellezza dei Caraibi e alle temperature da pantaloncini corti tutto l’anno. Me ne stavo lí a fotografare e a lottare con quei vampiri, mentre don Ramón rispondeva alle domande di Alejandro: ogni tanto si accorgeva di una zanzara che lo stava pungendo su un braccio e da buon campesino la lasciava fare. Quando sentiva il pungiglione entrare, allora si avvicinava lentamente con l’altra mano senza interrompere il discorso e, indicandola con l’indice, la schiacciava col solo polpastrello fino a farle uscire una goccia di sangue.
Parlava con serenitá don Ramón, avendo abbandonato per un momento la diffidenza tipica dei campesinos. Anche noi avevamo capito subito, dopo poche parole, che non eravamo di fronte al classico padrone: certo, la pistola alla cintola non era un buon argomento, ma quello che ci disse testimoniava il suo buon carattere.
Christian Jean (ecco finalmente il nome dell’haitiano) era il “caporale” che gestiva tutti gli altri braccianti haitiani che lavoravano per lui. In gergo campesino era il capataz, e lavorava lí da piú di otto anni, senza mai dargli problemi. Quando Christian gli disse che nella notte erano arrivati tre militari e si erano portati via tutto, don Ramón era tentato di non credergli.
Appena il giorno prima gli aveva dato 40.800 pesos perché pagasse i quindici haitiani che si trovavano ancora nel rancho dopo 5 mesi di preparazione della risaia. In sedici erano stati testimoni del furto, tutti erano stati minacciati e derubati di quello che avevano. Era la paga di 156 giorni di lavoro, meno di 18 pesos al giorno, poco piú di mezzo dollaro: nell’insieme era un capitale.
Don Ramón ripensó a quel piccolo pezzo di terra che gli aveva regalato qualche anno prima perché seminasse il riso per conto proprio; ripensava a tutte le volte che Christian se n’era ritornato ad Haiti per vedere la famiglia, e a tutte le volte che aveva fatto ritorno, puntuale, senza dire una parola. Otto anni erano sempre otto anni.
Don Ramón alla fine aveva deciso di credergli, e allora chiese al compare, don Euclides Valdez Díaz, di portarlo fino alla Fortaleza Beller di Dajabón, sede del quartier militare della provincia, per trovare i militari che “si erano permessi di portare via i soldi al suo haitiano”.

2.
In quel momento del racconto, si avvicina una moto, guidata da un haitiano, scalzo e con una pala sotto al braccio. Don Ramón gli aveva comprato una moto: Christian era l’unico haitiano che poteva dire di avere una moto solo per lui.
La lascia vicino alle altre due, la nostra e quella di don Ramón, e poi si avvicina timido ma camminando dritto verso la risaia, come se avesse troppo lavoro per fermarsi a parlare. Lo richiamiamo e gli spieghiamo perché eravamo arrivivati fin lí. «Raccontagli quello che ti é successo», lo rassicura il padrone, e cosí inizia a parlare, con una leggera inflessione creola mista a una forte cadenza dominicana, tipica di chi ha passato tutta la vita a lavorare la terra degli altri, da questa parte dell’isola.
All’interno della Fortaleza era successo l’impensabile: grazie alle amicizie influenti di don Euclides, il capitano di turno aveva fatto chiamare a rassegna i militari presenti, e Christian li aveva riconosciuti subito: «C’era quello e anche quello. Manca il terzo!». Il terzo, il cui nome era stato trovato nella lista di chi era di guardia quella notte a Gozuela, scoprirono che si era dato malato e aveva chiesto due giorni per andare dalla famiglia, a Santo Domingo. A quel punto, ecco l’imprevisto: il capitan Aquino, con la scusa di continuare gli accertamenti, decide di trattenere l’haitiano e lascia andare don Euclides, che cerca invano di opporsi.
Christian racconta delle minacce verbali, di come l’abbiano messo a terra e ammanettato alla gamba di una branda della camerata: i militari tutti intorno, a farsi le solite risatine. Mentre si getta a terra per farci rivedere quello che era successo, mi sono sentito i brividi scendere lungo la schiena. La normalitá con cui si svolgeva quella scena mi faceva star male.

Christian Jean simula la condizione all'interno della Fortaleza

Fortunatamente, grazie alla chiamata di un generale amico di don Euclides, il capitan Aquino era stato costretto a trasferire Christian al distretto di polizia: l’haitiano che aveva subito il furto, ora si trovava comunque dietro alle sbarre.
A quel punto entra in scena Fernando, il sergente mezzo-americano che avevo visto al mattino.
Era stato lui a ricevere i militari con l’incredulo carcerato, e li aveva rispediti subito all’ospedale perché il medico di turno firmasse un certificato di buona salute. Troppe volte erano arrivati malconci gli haitiani che passavano per la Fortaleza Beller.
Al loro ritorno, Fernando aveva giá chiamato il console haitiano, Leslie Debrosse, che ottenne il rilascio immediato.
A un solo giorno da quei fatti, Christian sembrava tranquillo, come se quello che gli era successo fosse solo uno di una lunga serie di abusi oramai dimenticati: non parlava nemmeno dei soldi che avevano perso, forse perché don Ramón, per quanto buono, non aveva intenzione di sborsare di nuovo quella cifra. Agli altri quindici haitiani era andata male, ma almeno non ci era scappato il morto.
Alejandro e io, nel ruolo di chi lavora per la tutela e la promozione dei diritti umani, non potevamo fermarci lí, dovevamo cercare giustizia fino in fondo: se i tre militari erano stati finalmente rinchiusi nel carcere della Fortaleza in attesa di sanzioni, bisognava assolutamente formalizzare la querela per portarli davanti a un tribunale civile. Solo cosí avremmo potuto ottenere una sentenza esemplare, l’inizio di un nuovo corso nella triste realtá di questa frontiera.
Sono passati molti giorni da allora, e questo post é stato rinviato fino ad oggi per la volontá di dare il lieto fine a una storia che forse, tutto sommato, non é diversa da tante altre. Don Ramón non ha risposto al telefono e non si é fatto rintracciare per quasi due settimane: alla fine, contattato da Alejandro, ha fatto capire di non voler sporgere querela. Lo stesso Alejandro mi é sembrato demoralizzato: «Se non la sporge lui, mica possiamo farlo noi!».
É questo il lieto fine della storia? Riflettendoci bene, e ricordando alcuni passaggi di quell’intervista, fatta in un pomeriggio di sole e di brividi lungo la schiena, spero proprio di sí. Prima di andarcene, don Ramón ci aveva detto una cosa: stava pensando di comprare una pistola a Christian, perché «un haitiano che accusi apertamente un militare, non é sicuro in nessun posto. Quando ritorneranno, dovrá potersi difendere».

lunedì 4 aprile 2005

.::L'intervista (1)


Alejandro Robles intervista Christian Jean, sotto gli occhi del padrone, don Ramón Tapia Monción

Un viaggio in moto di quasi un’ora, con Alejandro che faceva da passeggero, e la polvere che contornava gli occhi. Alle tre di pomeriggio il sole sembrava non dare ancora tregua, e l’ombra scarseggiava ovunque. Dopo aver sbagliato strada un paio di volte e chiesto inutilmente altre indicazioni per arrivare alla risaia di don Ramon, abbiamo visto da lontano una baracca col tetto di paglia... eravamo arrivati. L’intervista non era programmata ma bisognava farla ad ogni costo: uno degli haitiani di don Ramon era stato arrestato.
Il motivo? Era andato fino alla Fortaleza Beller e riconosciuto i militari che gli avevano rubato 40 mila pesos.
Tutto era iniziato due giorni prima. Erano quasi le dieci di sera, e Regino (il direttore di Solidaridad Fronteriza) passava per l’ufficio dove di solito rimango fino a notte fonda: lo fa tutte le volte, mi chiede com’é andata la giornata e poi, se la cosa va per le lughe, usciamo al patio e lui si fa una sigaretta...
Questa volta no, era rimasto in piedi a guardarmi, poi mi disse: «domani mattina bisogna che tu vada alla polizia perché hanno arrestato un haitiano: dice che tre militari gli hanno rubato 40 mila pesos, ma la polizia lo continua a trattenere... dobbiamo intervistarlo prima che lo riportino alla Fortaleza, prima che gli mettano le mani sopra».
Regino non voleva rivelare la fonte della soffiata, e la sua calma mi tranquillizzava. Abbiamo lasciato passare cosí la notte, e alle 8 eravamo sulla porta della stazione di polizia di Dajabón, con i cartellini di riconoscimento di Solidaridad Fronteriza, carta, penna e macchina fotografica: Jonathan e Alejandro entravano per primi, mentre io me ne stavo a due passi di distanza... sapevo l’effetto di un “gringo” in quei posti. Cercavo di non essere troppo visibile, perché Alejandro doveva farsi dire dove stavano trattenendo l’haitiano, la mia presenza poteva irrigidirli.
In quel momento mi arrivó una pacca sulla spalla che quasi faceva male. Era Fernando, l’avevo conosciuto qualche giorno prima, durante la visita del Procuratore Generale: continuava a parlarmi in inglese, lui, che era ritornato al paese per assistere la madre dopo aver vissuto 37 anni negli Stati Uniti. Lo ricordavo con addosso una polo delle forze speciali di sicurezza e la colt nella fondina di ordinanza. Quella mattina invece sembrava abusare un po’ troppo del suo status di dominican-york (i “ricchi” dominicani emigrati a New York): portava maglietta e infradito, aveva l’occhio un po’ spento e la colt che si aggrappava pesante all’elastico dei bermuda corti. Salutó anche gli altri con un sorrisone e qualche parola in inglese, e subito ci disse che quella storia dell’haitiano era proprio una vergogna: «i militari non possono mica trattare cosí un haitiano, prenderlo e sbatterlo in gabbia senza un motivo!» Fernando era sincero: ci eravamo scambiati pure qualche parola in spagnolo il giorno che ci eravamo consciuti, ed effettivamente avevo capito che era un sergente apposto, gli stava a cuore la sorte dell’haitiano, e di tutti gli altri, suppongo.
Iniziavo a pensare che fosse lui l’informatore di Regino, quando lui stesso mi disse di aver avvisato la sera prima il console di Haiti e di aver risolto la faccenda: l’haitiano era libero. Fernando iniziava di nuovo a parlarmi in inglese, ma noi avevamo bisogno di sapere come fosse andata veramente: due parole ben piazzate, un’altra pacca sulla spalla e la stretta di mano con lo schiocco delle dita, come si fa da queste parti, ed ero giá sulla moto pronto per andare dal console.
Al consolato abbiamo fatto presto: lo stesso console ci disse che proprio quella mattina avrebbe portato l’haitiano e il suo padrone (“padrone”!) al generale dell’esercito per risolvere legalmente la cosa, e noi non potevamo andare con lui: per ragioni diplomatiche, non poteva “mischiarsi” con una ong locale dominicana. Decidiamo cosí di ritornare alle nostre faccende, sapendo che per lo meno non c’erano rischi imminenti, ma nel pomeriggio bisognava cercare di parlare con questo haitiano, del quale il console non ci aveva voluto rivelare il nome...
(continua)

venerdì 1 aprile 2005

.::Il "secondo reddito"


Sfilata in maschera al carnevale di Santiago de los Caballeros

Uno deve pur cercare di sopravvivere... peccato che il camioncino che qui chiamano "discomobil" non fosse mio! Ma devo dire che ci sto pensando, non si puó mica lasciar marcire i soldi in banca, no?
Ma, chi era Gianni? Aspettate che faccio il numero, poi vi dico...

mercoledì 30 marzo 2005

.::Ricapitolando...


Dajabón: ponte della dogana sul Rio Massacre, placido testimone della "mattanza" di 25 mila haitiani ordinata nel 1937 dal dittarore dominicano Trujillo per dominicanizzare la zona di frontiera con Haiti

E sono cinque... non é che io li stia contando, questo no: a cosa servirebbe? Di mesi lontano dall’Italia ne passeró ancora molti, é solo che per il momento é piú facile contare questi. Di certo sono passati come un fulmine: la settimana di addestramento a Londra, il mese a Santo Domingo, il mese e mezzo ad Haiti e poi ancora a Santiago, di nuovo a Santo Domingo e finalmente Dajabón. Piú di tre mesi con le valige sempre pronte, prima di poter entrare a far parte di Solidaridad Fronteriza, organizzazione di base del Servizio gesuita per i rifugiati e i migranti (SJRM), in qualitá di Advisor in Communication and Human rights (dimenticavo di dire che l’ong che mi ha contrattato é l’inglese CIIR – Istituto cattolico di relazioni internazionali, che peraltro non mi ha ancora ufficilamente inserito nel suo sito... forse temono che io "scoppi" e chieda di tornarmene a casa!).
Dajabón rimane caoticamente quella cittadina affacciata ad Haiti che avevo conosciuto nel 2002: un ponte di frontiera sul Rio Massacre sotto il quale passano le migliaia di haitiani in fuga dalla miseria; l’onnipresente Fortaleza Beller con i suoi militari in mimetica o in borghese ai quali é meglio stare attenti, e un mercato binazionale che si apre i lunedí e venerdí ad ogni sorta di violazione da parte degli stessi militari, e non solo.
Oggi le cose sembrano andare un po’ meglio, e questo lo si deve al monitoraggio garantito dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani, Solidaridad Fronteriza in testa. Per rafforzare questa posizione, il mio lavoro sará quello di formare il personale di SF affinché possa utilizzare al meglio i mezzi di comunicazione di massa come strumenti per la tutela attiva dei diritti. I media nella loro versione di watchdogs (cani da guardia, sentinelle) della democrazia: un traguardo difficile e lontano, soprattutto in un contesto dove gli interessi politici ed economici legati alla presenza dei lavoratori immigrati haitiani sono piú importanti di qualsiasi diritto umano.
A questo punto dovrei iniziare veramente a fare due conti: se ormai sono passati cinque mesi e il progetto durerá due anni, per riuscire a fare qualcosa di concreto sará meglio che mi metta giá a richiedere l’estensione per un altro anno!

sabato 19 marzo 2005

.::Sulla strada giusta, con qualche morto che si poteva evitare


Nick Brooke affacciato alla "cella vecchia", nel carcere di Dajabón

No, niente incidenti stradali... la strada giusta a cui mi riferisco é quella che sembra aver preso il governo dominicano in tema di prigioni.
Giá da tempo esiste un progetto chiamato Parme (Proyecto de apoyo para la reforma y modernización del estado) che prevede il miglioramento del sistema penitenziario, attualmente allo sfascio.
Non entro nei dettagli solo perché non li conosco (eheh), peró é un dato di fatto che, dopo la tragedia di Higuey, la macchina della riforma ha ripreso a camminare. E, d’altro canto, non poteva non essere cosí: i morti di quel lunedí nero sono saliti a 136 e ben 52 cadaveri non sono nemmeno stati reclamati dalle famiglie. Non sempre si é trattato di cattivi rapporti con i famigliari: molte volte uno finisce in carcere e semplicemente non riesce a comunicarsi con la moglie o la madre... Molte volte si finisce in carcere senza nemmeno essere colpevoli: in Dominicana, quando ci si trova in presenza di una querela penale contro qualcuno, il giudice opta il piú delle volte per il carcere preventivo, e quando sei dentro sei dentro, nella cella comune insieme ad assassini e rubagalline.
In quel rogo erano quasi 100 i reclusi in attesa di giudizio: chissá quando si fará luce sui casi particolari, su ogni povero disgraziato che non doveva essere lí quella notte.
E cosí, in attesa di accertamenti che molti hanno paura di fare, le “autoritá” hanno deciso di venire fin quassú a Dajabón, su quella frontiera che é solo a un passo, ma é piú lungo della gamba: attraversarla, anche solo mentalmente, é cosí difficile... di lei si ricordano solamente quando si sta per toccare il fondo.
L’elicottero presidenziale li ha sbarcati direttamente nel recinto militare della Fortaleza Beller, dentro la quale c’è il carcere civile (!!!). Nell’ordine sono scesi: l’ambasciatore inglese, il direttore della scuola nazionale penitenziaria, il Procuratore generale della Repubblica e l’assessore inglese per la riforma del sistema penitenziario, Nick Brooke (nella foto). Non ci hanno nemmeno provato ad entrare nella cella vecchia: ci hanno solo buttato un occhio, fatto qualche domanda... ma tanto la situazione di quella cella si vede all’istante, é tutta lí, sudicia e brulicante di uomini (tra i quali un pazzo che non perde occasione per abbassarsi i pantaloni, alla faccia del self control inglese).
Nella cella nuova, inaugurata meno di un anno fa, la stuazione é migliore: Brooke finalmente sembra aver convinto gli altri a trasformarla nella cella di detenzione dei carcerati preventivi: una persona che non sia dichiarata colpevole non merita la cella vecchia... e i colpevoli si? Vabbé...
Poi arriva il nostro momento, letteralmente “Arrivano i nostri!”. Per piú di una settimana abbiamo lavorato sul documento da presentare alle autoritá: Solidaridad Fronteriza chiede questo e questo, e poi ancora quest’altra cosa e, se si puó, pure quest’altra. Mezz’ora di colloqui, e quello che ci concedono giá da subito é:
- la liberazione di 6 haitiani che si trovano ancora in carcere perché, dopo aver scontato la pena, non avevano i soldi per pagare la multa accessoria (per una multa di 30 euro, si puó rimanere dentro anche due anni!);
- l’inizio della costruzione di un centro di accoglienza per donne vittime di abusi, considerando l’alta percentuale di casi riscontrata nella zona di frontiera;
- la preparazione di corsi di lingua (creolo haitiano) per i nuovi agenti penitenziari, ai quali Solidaridad Fronteriza ha giá dato corsi di Diritti Umani e di Radici della dignitá umana.
Beh, non molto, considerando che altre cose come la ristrutturazione e pulizia della cella vecchia, la costruzione della biblioteca interna, la costruzione di altri bagni e docce, l’inizio di corsi di formazione professionale vengono sempre promesse e mai mantenute.
Peró stavolta ci accontentiamo, e un pesiero lo facciamo ai 136 morti di Higuey.
Delle volte penso a una cosa, come se la stessi vedendo in un film. Un incidente in macchina: tu hai ragione, lui ha torto. Lui ha le costole rotte perché, ubriaco com’era, non aveva messo le cinture. Lui finisce in ospedale per farsi fare le lastre, ma é mezzo intontito dai tranquillanti e dal rum che si era bevuto prima. La polizia non lo puó interrogare, ma tu sai che hai ragione, e glielo spieghi. Loro ti credono, e nello stesso momento ti mettono in carcere: si chiama arresto preventivo, da queste parti. Due sono le ragioni: la prima é che tu potresti essere il vero colpevole, e fin qui ci siamo. La seconda é che i familiari dell’ubriacone sanno giá, perché LORO lo conoscono (LUI non puó aver fatto una cosa del genere!) e quindi il colpevole sei sicuramente tu. Ora che ci pensi, la polizia ti sta facendo un piacere: tu rimani in cella finché l’altro non esce vivo dall’ospedale e chiarisce la cosa ai parenti, che sennó ti linciano sul posto. É giá capitato, lo sanno tutti. Ma qui non ci siamo piú, perché tu potresti essere ad Higuey questa notte, seduto sulla brandina della cella pensando solo alla macchina che quell’ubriacone ti ha appena sfasciato. Poi inizi a sentire l’odore acre del fumo, ed é l’inizio della fine.

giovedì 10 marzo 2005

.::Un blog dalla frontiera, e pensare che avevo quasi perso la speranza...


Nel carcere di Dajabón, all'interno del complesso militare "Fortaleza Beller"

... poi invece uno capisce che è ora di dire basta e invia un post. Ero pronto da quasi un mese, aspettavo solo il momento giusto e, perché no, anche la foto giusta: quella capace di raccontare in un attimo dove vivo e perché faccio quello che faccio.
Volevo quella foto di cui avevo sentito scattare il click nel carcere di Dajabón: il dito era quello di Jonas, fotografo belga alle prese anche lui con la frontiera. La sua era stata una foto fatta alle spalle, in un posto dove avere un amico “alle spalle” ti fa stare piú tranquillo. Beh, eccola, arrivata oggi, a un mese e qualche migliaia di km di distanza: mi ricorda quel giorno, il carcere e i suoi “ospiti”, l’otturatore della Rollei che si é inceppato due volte, le facce e i tatuaggi, i rullini che finivano troppo presto. Giá, i rullini: tutti andati oltre oceano nella borsa di Jonas, con la speranza di rivederli presto e ben sviluppati. Nel frattempo le foto che mi stanno riempiendo gli occhi sono quelle della tragedia che tre giorni fa ha fatto 134 morti nel carcere di Higuey, sud est dell’isola.
Era la notte di una domenica che stava per trasformarsi in un pessimo lunedí: lotta tra bande per lo spaccio interno della droga, revolver che circolano liberamente, la polizia che si fa prendere la mano e lancia un lacrimogeno di troppo, provocando un incendio che si rivelerà un olocausto. Per tre giorni si é discusso, accusato, tentato di insabbiare, ristabilito l’ordine tra i giornalisti che si erano dimenticati chi sono i veri padroni: finalmente la versione ufficiale ha attribuito le sole colpe alle bande, mentre si continuano a trovare cadaveri con i fori dei proiettili della polizia.
Per fortuna c’è ancora chi osa riconoscere che uno dei problemi seri è il sovraffollamento di queste carceri, con oltre due terzi dei detenuti ancora in attesa di giudizio e delle strutture che non si possono certo definire “modello”. E cosí il presidente Fernandez ha un bel “d’affare” nel portarsi a casa i 300 milioni di dollari che un gruppo di impresari spagnoli vuole investire nella modernizzazione del sistema carcerario domenicano. Un affare per tutti... ¿nessuno escluso?
Tornando a me: cosa ci facevo nel carcere di Dajabón alle 8 di mattina di un normale giorno di lavoro? Avevo deciso di unirmi al gruppo di colleghi che organizzava l’Operativo de limpieza: abbiamo raccolto spazzoloni, pennelli e vernice e siamo andati al carcere cittadino per dargli una rinfrescatina con l’aiuto dei reclusi. Era la mia prima volta, lo giuro. Forse per questo, di quel giorno ricordo due cose: ho fotografato come poche altre volte nella mia vita, con la speranza di non rivedere mai piú degli uomini in quelle condizioni; ho parlato come poche altre volte nella mia vita, con la certezza che non sarà mai piú la stessa vita.