mercoledì 4 maggio 2005

.::Repubblica Dominicana: parole di Ettore Mó, foto di Luigi Baldelli


Sotto lo sguardo di Ettore Mó, gli haitiani attraversano illegalmente all'alba le acque del Rio Masacre per arrivare in territorio dominicano

L’appuntamento era alle 6 e mezzo all'Hotel Intercontinental di Santo Domingo: insieme ad Alicia dovevo incontrare "Ettore"... così l'aveva chiamato Luigi, il fotografo del Corriere della Sera che mi aveva chiamato per avere alcune informazioni sulle piantagioni di canna da zucchero della Repubblica Dominicana.
Alicia, cooperante spagnola che avevo conosciuto tre anni fa, nella mia prima visita in RD, a dieci minuti dalla partenza mi disse estasiata: "È Ettore... Ettore Mó! Mia cognata, che fa la giornalista per City Milano, quasi le è venuto un infarto quando ha saputo che ieri pomeriggio ho accompagnato Ettore Mó in giro per i batey!".


Che dire? A me è quasi venuto un infarto solo poche ore dopo di lei! Ettore e Luigi erano quei due giornalisti italiani, fino ad allora rimasti anonimi, che il Servizio gesuita per i rifugiati di Santo Domingo mi voleva affidare solo per questioni di affinitá linguistiche! In meno di un secondo la lingua mi si era impastata, mancava poco per l’incontro con Ettore e il compito mi era sembrato chiaro fin dal principio: convincere lui e il fotografo ad allargare il reportage alla zona di frontiera dove sto lavorando, fargli conoscere la difficile situazione del nord e farla conoscere in Italia. Loro erano il Corriere della Sera!

All’Intercontinental lo chiamai direttamente dall'house phone: Ettore rispose gentile e scese, con addosso un gilet pieno di tasche che consacrava la sua immagine di reporter internazionale. Si scusó subito per l'assenza di Luigi, ma quella mattina era rimasto per 4 ore sotto il sole con la macchina in panne e duecento kilometri quadrati di canna da zucchero tutto intorno a lui.
Ettore invece era tranquillo, seduto sul divano in pelle della hall, e ascoltava in silenzio tutte le buone ragioni che subito gli offrí per convincerlo a venire fino a Dajabón. Quella mattina aveva incontrato il Cardinale di Santo Domingo, Nicolas de Jesús, e pure il nostro Chepe, direttore per l'America Latina e i Caraibi del Servizio gesuita per i rifugiati (SJR). Era rimasto soddisfatto, ma voleva vedere qualcosa in piú, dopo aver visto le difficili condizioni in cui vivono gli “schiavi moderni” delle piantagioni di San Pedro de Macoris.

Quel qualcosa in piú io lo conoscevo per nome: si chiamava Dajabón, si chiamava Barahona, si chiamava Pedro Ruquoy (quel missionario belga che nel 2002 mi aveva accolto a braccia aperte per il mio primo reportage fotografico). Bastó illustrargli quello che avrebbe visto e proporgli un itinerario: il fiuto di Ettore fece il resto. «Lasciatemi un paio d’ore per parlarne con Luigi e per avvisare il Corriere: pensavamo di proseguire il viaggio per il Perú, ma forse é meglio che annulliamo il volo e facciamo le cose per bene». Non c’era bisogno di aggiungere altro, cosí Ettore ci salutó con l’obbligo di rivederci a cena: erano da poco passate le sette, il malecon di Santo Domingo stava accendendo le luci della sera e a me non sembrava vero.

A cena conoscemmo finalmente Luigi Baldelli, da dieci anni fotografo fisso di Ettore Mó: le fettuccine e il buon vino italiano (introvabile nella mia lontana Dajabón!) accompagnarono i loro racconti di viaggio, i ricordi dell’Afganistan devastato dalla guerra e le immagini del Messico che attendeva l’arrivo di quel papa polacco appena eletto al soglio pontificio. Ritornavamo indietro nel tempo: Ettore era la storia del giornalismo che non avavo mai studiato sui libri dell’universitá.

Il giorno dopo partirono per Port-au-Prince, e la settimana dopo arrivarono finalmente a Dajabón: avevo riservato loro un paio di stanze nel miglior hotel della cittá, l’Hotel Masacre. Fra i tanti, era l’unico che si avvicinasse all’idea di hotel che un italiano puó avere. Leggendo il suo reportage mi resi conto di quanto fu importante quella scelta: leggendo il suo reportage, trovo la risposta a quanti mi chiedono continuamente «perché sei finito su quell’isola?».
Eccolo!


Machete e miseria, gli schiavi dello zucchero

(dal Corriere della Sera del 1-05-2005, pag. 14)



Nelle piantagioni della Repubblica Dominicana dove i profughi haitiani lavorano per tre dollari al giorno

Dietro la facciata di paradiso turistico, nel Paese si aprono fossati di miseria in cui affondano soprattutto gli haitiani che ogni giorno varcano a centinaia la frontiera in cerca di lavoro. Qui molti ancora ricordano la strage del 1937, quando il dittatore Trujillo fece uccidere migliaia di immigrati. Una «mattanza» oggi impossibile, anche se i problemi tra Santo Domingo e Port-au-Prince rimangono. Nei campi di canna da zucchero la quasi totalità dei tagliatori è costituita dai profughi, un popolo senza diritti che vive in condizioni atroci.


DAJABÒN (Repubblica Dominicana) — Non m’era mai capitato finora, girando il mondo, di scendere in un albergo dal nome tanto... suggestivo, Hotel del masacre. L’Hotel del Massacro sorge a Dajabòn, città di confine tra la Repubblica Dominicana e Haiti, sfiorata dalle acque di un fiume chiamato, altrettanto impietosamente, Rio del masacre.

In ambedue i casi, la cupa definizione si riferisce alla strage compiuta il due, tre e quattro ottobre del 1937, quando il dittatore Rafael Leonidas Trujillo fece uccidere qui e in altre parti del Paese migliaia di immigrati haitiani. Le cronache del tempo discordano nel computo delle vittime, che oscillerebbe da un minimo di quattromila morti a un massimo di ventimila. Ma hanno un poco esagerato definendo anche le varie portate del menù delicias (delizie) del massacro. Una tragedia lontana nel tempo, ma che i bambini e gli adolescenti d’allora—oggi tra i sessanta e gli ottant’anni—non riescono a dimenticare.

Tuttavia, anche se lo scenario politico attuale è diverso da quello degli anni ’30 e nessuno potrebbe immaginarsi una «mattanza» di simili dimensioni, il problema degli haitiani che ogni giorno varcano a centinaia il confine in cerca di lavoro è più che mai vivo e resta fonte inesauribile d’incomprensioni e di conflitti tra Santo Domingo e Port-au-Prince. Per chi fa la spola da una capitale all’altra è facile notare la diversità del tenore di vita, ma non deve trarre in inganno la Repubblica Dominicana perché dietro la facciata di paradiso turistico con spiagge dorate e giochi erotici esercitati in gran parte dalla prostituzione minorile — ragazzine e maschietti — si aprono fossati di miseria, disperazione, squilibri sociali: in cui affondano soprattutto gli haitiani.

È una realtà che balza cruda agli occhi nelle immense piantagioni di canna da zucchero, che per oltre un secolo sono state la principale fonte di ricchezza del Paese, dove la quasi totalità dei braceros—così sono chiamati i tagliatori muniti di machete — è costituita da tanta povera gente fuggita dalla propria terra, Haiti appunto, per poter semplicemente sopravvivere. Per il colore della pelle — sono discendenti degli schiavi africani portati in catene nei Caraibi dal ’600 in poi —, i dominicani li chiamano anche Congos, come volessero ricordar loro che «l’era della schiavitù» non è del tutto scomparsa. In realtà, gli mancano solo le catene: ma le condizioni in cui vivono e lavorano durante i sei-sette mesi della «zafra» — il tempo del raccolto— sono penose, per non dire atroci.

Le denunce però non servono. Nessun tribunale dei diritti umani è finora riuscito a svolgere una consistente pressione o azione di protesta contro un sistema che è eufemistico definire medioevale. I Congos cominciano a tirar fendenti sulle canne alle 6 del mattino e finiscono a sera verso le 18 o anche le 20, inebetiti dalla fatica e dal sole, non di rado feroce in queste latitudini. I salari sono molto bassi e spesso inadeguati rispetto alla quantità del materiale accumulato, ma il tagliatore non ha voce in capitolo, è l’azienda a stabilirlo. I lavoratori vivono nei cosiddetti «bateys», specie di minuscoli villaggi con catapecchie di legno ai margini della piantagione, senza luce né acqua corrente e quasi tutte senza finestre. Se chiudi la porta, è notte anche di giorno.

Intraprendo un viaggio dentro questa sofferenza, zigzagando in macchina da Nord a Sud, da Est a Ovest, facendo sosta ovunque risuonino i colpi del machete. A Consuelito, in località San Pedro de Macoris, m’imbatto in Luis, un vecchio lungo lungo magro magro, seduto nel suo andro, quasi immobile, come pietrificato. Ha 89 anni e non può più lavorare. Approdò in questo «batey» nel ’68 e non si è più mosso. Non percepisce un soldo di pensione, i «padroni non hanno provveduto». È solo. Dice di aver conosciuto la fame, ora conosce la solitudine. Il buco in cui vive è l’anticamera della morte: nere le pareti, nero il soffitto, sulla branda un paio di ciabatte nere di plastica. Dice anche d’aver fiducia in Dio.

Il continuo, frenetico flusso migratorio degli haitiani verso la Repubblica Dominicana è stato in gran parte determinato dalla situazione economica: ma non sono neanche mancati, in alcuni periodi, i profughi che hanno abbandonato il Paese per ragioni politiche, come avvenne dal 1957 all’86 durante la dittatura di Duvalier o dal 1991 al ’94 in seguito alla brutale repressione del regime di Cedras. Oggi, il totale degli immigrati haitiani sul territorio della Repubblica dovrebbe aggirarsi intorno ai 380 mila (meno del 5% rispetto alla popolazione dominicana) e non di mezzo milione come è stato spesso sostenuto in base a dati «gonfiati»; ad arginare il numero hanno indubbiamente contribuito le deportazioni degli immigrati illegali (che sono la maggioranza) al ritmo, secondo sondaggi recenti, di circa 10 mila l’anno.

Ad esacerbare l’animo degli haitiani non sono soltanto le condizioni disumane del lavoro ma anche il fatto che viene loro negata la nazionalità dominicana, cui, secondo la Costituzione, avrebbero diritto, anche se nati da genitori haitiani, da tempo residenti nella R.D. Ciò li pone nella situazione di apolidi, privandoli dei documenti d’identità e di tutti i certificati necessari per condurre un’esistenza normale nella società. Essi sono — ha scritto qualcuno — dei «morti civili»: definizione che Bridget Wooding, una signora inglese trapiantata a Santo Domingo dove si occupa di diritti umani e problemi sociali, spiega molto bene in un suo libro, «Needed but unwanted», di cui traduco approssimativamente il senso: i dominicani hanno bisogno degli haitiani (per lo sviluppo della loro economia) ma allo stesso tempo non li vogliono.

Ma al posto di frontiera di Dajabòn, nel tratto di confine nordoccidentale, c’è un gran trambusto il venerdì — giorno di mercato— quando migliaia di haitiani si precipitano al mattino presto in territorio dominicano attraverso il ponte, non appena si apre la barriera, o sotto il ponte, guadando il fatidico fiume Massacro, che nel ’37 si riempì di cadaveri e sangue. Ognuno ha in testa un grosso fagotto dove c’è roba da vendere al mercato — vestiti, scarpe usate, ortaggi, frutta — o pile di cassette d’uova, infilate l’una nell’altra, ma sempre in meraviglioso equilibrio nonostante gli scossoni e l’ondeggiare della folla. Chi passa sotto il ponte e non vuole bagnarsi i piedi o le scarpe ricorre all’uomo-cavallo, che lo traghetta in spalla sull’altra sponda. Di tanto in tanto, i doganieri fermano bruscamente qualcuno e frugano nel bagaglio, caso mai ci fosse merce proibita e pregiata, come droga, abbondante da queste parti.

Questa atmosfera festaiola del giorno di mercato consente un provvisorio respiro di sollievo a una contrada che, dopo un passato cruento, dove ora affrontare una situazione di estremo disagio: «Qui — spiega Gianni, esponente del Servicio Jesuita a Refugiados y Migrantes, organizzazione internazionale della Compagnia di Gesù impegnata ad assistere immigrati e profughi in zona frontaliera — vivono 88 mila persone senza né acqua né elettricità e registriamo il 36 per cento della mortalità infantile». L’infanzia non versa in condizioni migliori che ad Haiti e i bambini haitiani nati nella Repubblica non hanno facile accesso alla scuola non avendo i documenti necessari, che del resto i genitori non richiedono per paura di essere deportati.

Molti di loro vivono per strada, come i gatti e i colombi, e sono infatti chiamati las palomas, spesso vittime di abusi sessuali consumati non di rado in famiglia. Non dico la sorpresa quando mi sono imbattuto, qui a Dajabòn, in un altro italiano — Gino, semplicementeche ha abbandonato la sua città, Alba, la casa e il lavoro per dar vita ad un’associazione che si occupa di «palomas» dai 4 ai 12 anni: «Ne ho reclutati 153 — dice — e penso al loro presente e al futuro. Abbiamo medici, infermiere, due maestre, un pediatra».

Il collasso dell’industria della canna da zucchero, di proprietà dello Stato fino alla privatizzazioni del ’99, cambiò gradualmente il destino degli immigrati haitiani che a poco a poco abbandonarono i «bateys» e la dura vita rurale nelle piantagioni per trasferirsi nei centri urbani e dedicarsi a nuove occupazioni, nell’edilizia, nel commercio, nel lavoro domestico, nei trasporti, ovunque fosse possibile raggranellare un salario decente. E hanno appeso al chiodo il machete. Ma se il collasso dell’industria cañadera, provocato alla fine degli anni ’80 dal calo del prezzo dello zucchero nel mondo, ha portato mutamenti sostanziali nella vita dei 500 «bateys» sparsi sul territorio nazionale, essi non hanno corso certo il rischio dell’estinzione, come forse qualcuno paventava.

Ed è valsa la pena di fare una passeggiata fino a Barahona, località del Meridione affacciata sul Mar dei Caraibi, dov’è appena cominciata la «zafra»(il raccolto) e i 18 «bateys» della zona sembrano colti da frenesia. Ci abitano circa 25 mila tagliatori (o picadores) con le relative famiglie che dipendono, sia per la vita spirituale che materiale, da un estroso, zelante sacerdote di origine belga (Charleroi) sbarcato nella Repubblica Dominicana nel ’75, a 23 anni, aggregato al Servicio Jesuita a Refugiados y Migrantes, giornalista e direttore di programmazione di Radio Enriquillo. Insomma, non sta fermo un minuto, don Pedro Ruquoy. «Qui c’è la miglior canna da zucchero del Paese—dice portandoci in visita nei "bateys" che hanno nomi rasserenanti, come Isabelle o Santa Maria —: ma oltre ai picadores o Congos c’è anche gente che lavora nelle piantagioni di caffè».

Al «batey» numero 5 c’è il pago, è giornata di paga. Ma quasi tutti imprecano e si lamentano perché il salario non corrisponde alle ore di lavoro fatte né alla quantità (in tonnellate) della canna tagliata. Il salario medio—apprendo—è di 70-80 pesos al giorno, poco meno di 3 dollari: e Riccardo Yiben — 58 anni con 40 di machete nelle braccia e la faccia di cuoio stagionato cotta dal sole —va su tutte le furie quando scopre d’essere stato compensato per una sola giornata mentre ne ha fatte due o tre. «Hanno ragione di protestare—dice il gesuita — È un’ingiustizia. Una tonnellata di canna da zucchero, tanti pesos. Mai dirigenti valutano la quantità a occhio e poi la pesano all’interno della fabbrica e i picadores non hanno alcuna possibilità di verifica e tanto meno di negoziare il prezzo del proprio lavoro». Chi guida il trattore lavora 12 ore al giorno, tutti i giorni, domenica compresa, ma lo pagano solo per 8 ore. Niente straordinari.

I dominicani sono in prevalenza cattolici (95%), ma nei «bateys» della zona attorno a Barahona, che comprende le provincie di Bahoruco e Independencia, gli immigrati haitiani celebrano anche i riti voodoo e padre Pierre (così lo chiama chi sa il francese) si premura di mostrarci le capanne dove regolarmente si svolgono: qui si celebra lo spirito della fertilità, il cui sacerdote — ora defunto— ha avuto 54 figli; mentre in un altro tugurio, tra lampade, candele, oggetti vari del culto animista dell’Africa Occidentale, è di casa lo spirito della morte. Oserei dire che è la tolleranza lo spirito che si addice a Pedro-Pièrre-Ruquoy: parla con rispetto del voodoo e non sembra per nulla turbato dal fatto che tra i suoi parrocchiani ci sia una «capessa» del «batey» numero 9, chiamata la Rossa, che vive more uxorio con due altre signore o che sui banchi della sua cappella s’inginocchi regolarmente un travestito in tutta la sua provocatoria eleganza.

Oggi, domenica, messa cantata nella chiesa della «Vergine dei dolori», «batey» numero due. I canti liturgici sono accompagnati dalla percussione di due bongo che hanno un suono molto africano. Il soffitto della cappella è rivestito da canne da zucchero. Nella lettura dei passi del Vangelo, il parroco passa con disinvoltura dallo spagnolo al creolo. Tra i fedeli manca la nutrita rappresentanza dei braceros che dalle 6 del mattino stanno faticando nei campi: «Non è una questione di fede — fanno sapere —: è che non possiamo permetterci di perdere una giornata di lavoro. Il padre lo capisce». Da queste parti, anche Cristo è un bracero e lo portano in processione il primo giorno della «zafra». È un Cristo di legno di pelle scura, un Cristo haitiano, il corpo appeso alla croce lacerato dalle piaghe della fatica: e dietro le gambe gli hanno pure infilato un machete.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

C'è poco da dire, c'è poco da fare...
sei GRANDE!
Sabina

Anonimo ha detto...

ciao Gianni,
fai tante foto.
poi fai un'altra mostra.

in gamba

Matteo

Anonimo ha detto...

ciao giannizzero! grande! l'articolo me l'ero già ciucciato avidamente...
un baseto, gio

Anonimo ha detto...

Ho stretto la mano a Luigi Baldelli questa sera: che stretta! Che sguardo... di quelli che vanno oltre... con lui c'era anche Ettore Mo. Due lacrime per una sua frase, un ricordo... il suo, di un tempo... il mio, di oggi!