lunedì 4 aprile 2005

.::L'intervista (1)


Alejandro Robles intervista Christian Jean, sotto gli occhi del padrone, don Ramón Tapia Monción

Un viaggio in moto di quasi un’ora, con Alejandro che faceva da passeggero, e la polvere che contornava gli occhi. Alle tre di pomeriggio il sole sembrava non dare ancora tregua, e l’ombra scarseggiava ovunque. Dopo aver sbagliato strada un paio di volte e chiesto inutilmente altre indicazioni per arrivare alla risaia di don Ramon, abbiamo visto da lontano una baracca col tetto di paglia... eravamo arrivati. L’intervista non era programmata ma bisognava farla ad ogni costo: uno degli haitiani di don Ramon era stato arrestato.
Il motivo? Era andato fino alla Fortaleza Beller e riconosciuto i militari che gli avevano rubato 40 mila pesos.
Tutto era iniziato due giorni prima. Erano quasi le dieci di sera, e Regino (il direttore di Solidaridad Fronteriza) passava per l’ufficio dove di solito rimango fino a notte fonda: lo fa tutte le volte, mi chiede com’é andata la giornata e poi, se la cosa va per le lughe, usciamo al patio e lui si fa una sigaretta...
Questa volta no, era rimasto in piedi a guardarmi, poi mi disse: «domani mattina bisogna che tu vada alla polizia perché hanno arrestato un haitiano: dice che tre militari gli hanno rubato 40 mila pesos, ma la polizia lo continua a trattenere... dobbiamo intervistarlo prima che lo riportino alla Fortaleza, prima che gli mettano le mani sopra».
Regino non voleva rivelare la fonte della soffiata, e la sua calma mi tranquillizzava. Abbiamo lasciato passare cosí la notte, e alle 8 eravamo sulla porta della stazione di polizia di Dajabón, con i cartellini di riconoscimento di Solidaridad Fronteriza, carta, penna e macchina fotografica: Jonathan e Alejandro entravano per primi, mentre io me ne stavo a due passi di distanza... sapevo l’effetto di un “gringo” in quei posti. Cercavo di non essere troppo visibile, perché Alejandro doveva farsi dire dove stavano trattenendo l’haitiano, la mia presenza poteva irrigidirli.
In quel momento mi arrivó una pacca sulla spalla che quasi faceva male. Era Fernando, l’avevo conosciuto qualche giorno prima, durante la visita del Procuratore Generale: continuava a parlarmi in inglese, lui, che era ritornato al paese per assistere la madre dopo aver vissuto 37 anni negli Stati Uniti. Lo ricordavo con addosso una polo delle forze speciali di sicurezza e la colt nella fondina di ordinanza. Quella mattina invece sembrava abusare un po’ troppo del suo status di dominican-york (i “ricchi” dominicani emigrati a New York): portava maglietta e infradito, aveva l’occhio un po’ spento e la colt che si aggrappava pesante all’elastico dei bermuda corti. Salutó anche gli altri con un sorrisone e qualche parola in inglese, e subito ci disse che quella storia dell’haitiano era proprio una vergogna: «i militari non possono mica trattare cosí un haitiano, prenderlo e sbatterlo in gabbia senza un motivo!» Fernando era sincero: ci eravamo scambiati pure qualche parola in spagnolo il giorno che ci eravamo consciuti, ed effettivamente avevo capito che era un sergente apposto, gli stava a cuore la sorte dell’haitiano, e di tutti gli altri, suppongo.
Iniziavo a pensare che fosse lui l’informatore di Regino, quando lui stesso mi disse di aver avvisato la sera prima il console di Haiti e di aver risolto la faccenda: l’haitiano era libero. Fernando iniziava di nuovo a parlarmi in inglese, ma noi avevamo bisogno di sapere come fosse andata veramente: due parole ben piazzate, un’altra pacca sulla spalla e la stretta di mano con lo schiocco delle dita, come si fa da queste parti, ed ero giá sulla moto pronto per andare dal console.
Al consolato abbiamo fatto presto: lo stesso console ci disse che proprio quella mattina avrebbe portato l’haitiano e il suo padrone (“padrone”!) al generale dell’esercito per risolvere legalmente la cosa, e noi non potevamo andare con lui: per ragioni diplomatiche, non poteva “mischiarsi” con una ong locale dominicana. Decidiamo cosí di ritornare alle nostre faccende, sapendo che per lo meno non c’erano rischi imminenti, ma nel pomeriggio bisognava cercare di parlare con questo haitiano, del quale il console non ci aveva voluto rivelare il nome...
(continua)

4 commenti:

Enrico Barasciutti ha detto...

dunque?!?... com'é andata?
è sano e salvo questo haitiano? e perché uno gira con una colt nelle mutande? attendo fiducioso risposte varie...
tra l'altro l'incipit di quest'ultimo blog ben s'adatta a "i diari della motocicletta"... ehehe, un abbraccio gianni!
*E*

ps: ti sei accorto che il blog in cui c'é il furgoncino con scritto "gianni" è stato messo on line il Primo Aprile? "pesce"!

giannidalmas ha detto...

Ciao Enrico,
l'haitiano é sano e salvo... questo post non vuole essere una storia che ti tiene col fiato sospeso: non voglio sensazionalismi, voglio solo farvi capire come vanno le cose da queste parti, senza drammatizzare le storie per renderle piú avvincenti.
Questa é la storia vera di un haitiano normale, vittima di una violazione "normale".
A domani il resto del racconto (oltre all'elettricitá, ci vuole anche tanto tempo per poter scrivere!).
gianni

PS: certo che mi sono accorto di aver postato la foto del furgoncino il primo di aprile: il pesce era per voi!

Enrico Barasciutti ha detto...

eheh, ciao intanto grazie..
stasera ci troviamo in tanti, ti abbracciamo!
*E*

giannidalmas ha detto...

Scusate per il ritardo nel pubblicare la seconda parte del post, ma tra il super lavoro e l'influenza (ai Caraibi!) non ce la sto proprio facendo!
Non disperate, fra un po' ritorno...