martedì 27 giugno 2006

Ho passato la notte di Natale in carcere


La cella di reclusione del commissariato di polizia di Montecristi

Il 25 dicembre del 2005 l'ho passato dietro le sbarre, in galera. Una notte gelida dormendo sul pavimento sporco di escrementi umani in una cella del commissariato di polizia di Montecristi, qui, nella tropicale Repubblica Dominicana. Perché sono finito dentro proprio il giorno di Natale?

La storia è lunghissima, anche se era iniziata solo tre settimane prima. Era giá da diversi mesi che dicevo ai miei colleghi di Solidaridad Fronteriza, e soprattutto al suo direttore, che dovevamo fare qualcosa per le decine di ragazze, minorenni haitiane e dominicane, che si prostituivano nei bar di Dajabon e dintorni, e noi non avevamo mai fatto nulla in merito.

A dicembre mi ero preso un paio di giorni di riposo e uno di quei giorni è capitato che, in modo non proprio involontario, mi sono ritrovato a Montecristi, poco lontano da Dajabón, a salvare una di queste ragazzine haitiane dalle mani di un pappone (anche lui haitiano), che la stava ammazzando di botte davanti a oltre 50 persone totalmente indifferenti.



Nel tentativo di trovare il modo piú sicuro per portarla davanti alla giustizia, ho iniziato a darle protezione, decidendo di pagare di tasca mia ogni spesa: per colpa delle circostanze e dell'urgenza, tutto era iniziato come un'iniziativa personale e non potevo ancora coinvolgere ufficialmente Solidaridad Fronteriza. La ragazza era una minorenne haitiana, senza documenti legali per entrare in territorio dominicano: era a tutti gli effetti una vittima di "tratta di persona per sfruttamento sessuale", e non potevo semplicemente portarla alla polizia affinché denunciasse le percosse ricevute. Senza le dovute procedure, la polizia avrebbe arrestato sia lei che lo sfruttatore haitiano e li avrebbe rimpatriati entrambi dall'altra parte del confine con Haití, dove "non esiste la legge", lasciando libero il pappone di darle il ben servito una volta per tutte.


Avevo deciso di lottare affinché le autorità dominicane riconoscessero il suo caso e le dessero la protezione adeguata: sapevo che questo avrebbe significato un grande sforzo, soprattutto perché nemmeno le autorità preposte sapevano come gestire un caso simile. Avevo già chiamato tutte le persone più importanti che conoscevo: avvocati, procuratori, giudici, ma nessuno sapeva come trattare il caso di una "haitiana, minorenne e illegale". Per di più, qui degli haitiani non è che gliene freghi granché. Ma non pensavo nemmeno lontanamente che sarei finito in carcere...



Quando ho portato il caso a Dajabón, all'ufficio di Solidaridad Fronteriza, l'unica risposta che avevo ottenuto dal direttore era: "devi consegnare la ragazza al Consolato haitiano, e loro decideranno cosa farne". Io non ci potevo credere! Tutti sapevamo bene che il Consolato era (è!) corrotto fino all'osso e non alza un dito per quelli che hanno veramente bisogno. Per di piú, Solidaridad Fronteriza aveva iniziato da diversi mesi una campagna di sensibilizzazione proprio contro il traffico e la tratta di persone, e proprio adesso che ci trovavamo di fronte al primo caso reale, concreto, con una ragazzina di 15 anni costretta a prostituirsi e abbandonata da tutti, non potevamo tirarci indietro! Sorprendentemente, l'unica cosa che sapeva dire il direttore era di scaricarla al consolato haitiano ?!?!?

Mi sono opposto subito a questa scorciatoia e ho manifestato l'intenzione di portare avanti quella che lui aveva chiamato "una linea personale, non istituzionale". Secondo me dovevamo intervenire noi, che in teoria eravamo gli "specialisti" del tema in quanto stavamo ricevendo migliaia di dollari per fare una campaña di sensibilizzazione contro il fenomeno della tratta di persone. Per me era una questione di coerenza oltre che un'azione umanitaria.

Cosí ho deciso di bussare a tutte le porte possibili: parlando direttamente con il Procuratore generale della Repubblica (una specie di Ministro della giustizia qui in Dominicana); mandando rapporti dettagliati al Dipartimento di Traffico e Tratta di persone della Procura di Santo Domingo e a tutte le associazioni interessate al tema (compresa la OIM - Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, che ha una casa di accoglienza per vittime di tratta).

Tutti hanno fatto orecchie da mercante e persino le suore Oblate, che di norma offrono aiuto a queste ragazze vittime di abusi, mi hanno chiesto chi avrebbe pagato il vitto e l'alloggio della casa. Insomma, tutti hanno lasciato su di me il peso di aiutare questa ragazza, a pochi giorni dal Natale. Ricordo ancora le parole di Juan Casilla Solis, il PM di Dajabón: "lascia stare Gianni, ascolta me, non ce la farai mai da solo. Mica ti puoi far carico di una ragazzina, non sei suo padre!". Oppure il commento che a distanza di qualche mese mi fece un'amica che lavora per un'altra grossa ong della capitale: quando chiamai per chiedere aiuto, il 22 di dicembre, le avevano detto di dirmi di sí, ma con le mani facevano dei gesti come per dire "tanto da domani siamo in ferie!".



Dopo mille telefonate, quando ormai sembrava che la Procura di Montecristi avesse intenzione di fare qualcosa, ho scoperto a mie spese il livello di connivenza esistente all'interno della giustizia dominicana. Qualcuno si era reso conto ben prima di me che, se la ragazza avesse rivelato tutti i dettagli della sua storia, alcuni pesci grossi sarebbero finiti nella rete.

Per esempio, sarebbe venuto fuori il fatto che la minorenne haitiana era arrivata in Repubblica Dominicana per lavorare come domestica nella casa di una persona molto influente di Montecristi, la quale aveva addirittura pagato 500 pesos perché il trafficante haitiano corrompesse i controlli militari alla frontiera per farla arrivare illegalmente da Haiti. Era un'azione da manuale della "Tratta di persona", punibile dai 15 ai 20 anni di prigione, secondo il nuovo codice penale dominicano.

Ma è proprio qui che entra in gioco l'amicizia tra questa persona importate e la Procura, con il fine di insabbiare tutta la vicenda: il giorno di Natale, alle 4 e mezzo del pomeriggio, la polizia ha fatto irruzione nell'albergo dove mantenevo nascosta la ragazza in attesa di presentarla finalmente davanti al giudice, il lunedì 26 di dicembre, e mi hanno arrestato con l'accusa di "sottrazione di minorenne", portandosi via la ragazza e sbattendo me in una cella puzzolente del commissariato locale.



Dopo averla interrogata e cercato invano di farle dichiarare che io l'avevo costretta ad avere relazioni sessuali con me, l'hanno rimpatriata ad Haiti, di notte, da sola, senza nessuno che la proteggesse, con il rischio che la trovasse il pappone haitiano (che nel frattempo era fuggito ad Haiti sapendo che stavo cercando di farlo mettere in prigione).

Dopo tutto quello che avevo fatto per evitarle il rimpatrio e garantirle un giusto processo, alla fine erano riusciti a sbatterla dall'altra parte del confine e metterla a tacere, mentre io venivo fatto passare come uno dei tanti italiani che fanno "gli ebeti" con le ragazzine.

Quella notte in prigione non sono riuscito a chiudere occhio: tra i mosquitos e le mille idee che mi passavano per la mente non riuscivo a pensare che ad una cosa, un'unica cosa... ero stato fregato! Ormai potevo contare solo su una piccola speranza: quel messaggio in segretería che ero riuscito a lasciare di nascosto ad un amico avvocato prima che la polizia mi requisisse il cellulare.

All'indomani mattina miracolosamente apparve l'amico avvocato, il dossier di 13 pagine che avevo spedito ai quattro venti e pure il direttore di Solidaridad Fronteriza, il cui aiuto (stavolta sì) è stato indispensabile per uscire dal carcere il giorno stesso. Le accuse per trattenermi agli arresti erano del tutto campate in aria ma le influenze si sono ancora fatte sentire: sono stato portato immediatamente davanti al GIP e mi è stato imposto il divieto di uscita dal territorio dominicano per 6 mesi, periodo nel quale il PM poteva raccogliere le prove sufficienti per presentarmi davanti al giudice di prima istanza.

Insomma: ero libero e non lo ero. Soprattutto, non ero più libero di battermi in favore della ragazza, perché ormai avevano trovato il modo di ricattarmi con lo spauracchio del carcere.


Una volta letta la sentenza, tutto quello che mi interessava sapere in quel momento era: dov'è la ragazza?
Ritornati in tutta fretta a Dajabón, abbiamo scoperto che aveva trovato rifugio nella casa di un tassista nella cittadina haitiana di Wanament. Era spaventata a morte: non sapeva dove si trovava e temeva che il pappone fosse già sulle sue tracce.

In quel momento bisognava trovare una casa piú sicura, ma non potevamo portarla a Dajabón perché non aveva documenti e non potevamo correre il rischio che "qualcuno di Montecristi" ci accusasse di introdurre "immigrati haitiani irregolari" in territorio dominicano. Il piano era stato ben studiato: con la ragazza ad Haiti non avremmo mai potuto portarla legalmente davanti ad un giudice dominicano per chiedere giustizia di quello che le era stato fatto. La vittima era stata resa inoffensiva, noi avevamo le mani legate e a Montecristi qualcuno rideva sotto i baffi.

Quando ci siamo resi conto di questo, il direttore di Solidaridad Fronteriza si è reso ancor meno disponibile ad appoggiare un caso che aveva rifiutato fin dall'inizio. Se l'unica soluzione era riuscire a farle avere un passaporto, di questo doveva incaricarsene l'ufficio haitiano della nostra ong. Ricorderò sempre le parole del direttore, Padre Regino Martinez Bretón: "se non se ne faranno carico loro, in Haiti, per me quella ragazza può anche andarsene a dormire sotto un ponte!".
Quanto è difficile essere "umani"...

A quel punto sono iniziati 6 lunghi mesi, in attesa che qualcosa succedesse.
Ad oggi, 27 giugno del 2006, M. (questa è l'iniziale del nome della ragazza haitiana) non ha ancora un passaporto, ma siamo riusciti a farla accogliere nella comunità delle suore colombiane della congregazione di San Giovanni Evangelista a Wanament.

Senza un padre e con una madre che non vuole farsi carico di lei, non è sempre facile farle capire che c'è qualcuno che le vuole bene veramente e che sta facendo di tutto per darle l'opportunità di costruirsi una vita.


[nella foto, il 19 marzo 2006 M. compie 16 anni. A sinistra Suor Nidia e a destra la collega Angelica Lòpez]

Altre volte non è poi cosí difficile capire quanto sia lei ad insegnare a noi che le stiamo vicini!

Per quanto riguarda me, oggi è finalmente scaduto il divieto di uscita dalla Repubblica Dominicana. Stamattina sono ritornato nella cella, ormai vuota, in cui ero stato rinchiuso il giorno di Natale del 2005.
Oggi ritrovo una libertà di cui però non credo vorrò approfittarne, almeno per un altro po' di tempo. Nonostante ci sia stata la decisione condivisa di terminare anticipatamente il contratto con Solidaridad Fronteriza, in questi mesi di "confino" mi sono reso conto di quanto ci sia ancora da fare su questa frontiera dominico-haitiana.

L'impulso che mi aveva spinto ad intervenire nel caso di M. era probabilmente dettato dalla frustrazione per quello che sentivo di non riuscire a fare dentro Solidaridad Fronteriza: fuori dalla logica dei "progetti di cooperazione", ho bisogno di immergermi nuovamente nelle questioni propriamente umane, di chi ha veramente bisogno di aiuto e non di chi vuole solo un rendiconto e una fatturazione a partita doppia.

E stavolta l'impulso mi dice di fermarmi e rimboccarmi le maniche.



martedì 13 giugno 2006

.::Ritorno al Batey

© giannidalmas
Niños nel batey di Boca de Mao

Dopo più di un anno, sono ritornato al Batey di Boca de Mao, uno di quei piccoli centri costruiti nel bel mezzo delle piantagioni agricole. Se la canna da zucchero si coltiva nel sud-est dell'isola, qui a farla da padrone sono le banane. E come sempre, chi lavora nei campi è haitiano, in gran maggioranza. E lo si vede dai bambini, che sono i primi ad accoglierti quando entri nel batey.

Ma questo non è un batey normale, nonostante i grandi sorrisi e gli occhioni enormi: lo scorso anno, a maggio, molti degli haitiani che vivevano in queste case di tavole e lamiera sono stati deportati massivamente dalle autoritá dominicane. Probabilmente il fatto più grave di tutto il 2005, un bel primato finito nel rapporto annuale di Amnesty International.
E proprio questo era il motivo della visita: due ricercatori di Amnesty, Gerardo e James, volevano conoscere direttamente alcune delle persone deportate illegalmente.

© giannidalmas© giannidalmas

"Gago", balbettando piú del solito, raccontó della paura che provó quando i militari dominicani avevano buttato giú la porta di casa sua, alle 5 di mattina. Gli spintoni, la fretta e tutti su sul camion dell'esercito, che lo aspettava giá carico di molta altra povera gente.
Filomena invece non può dimenticare due cose: il sentimento di impotenza di fronte alle carezze e agli apprezzamenti volgari di alcuni soldati e la vergogna che provò quando dovette attraversare il ponte sul Rio Massacre. Sporca, con due stracci addosso, di fronte agli sguardi e ai sorrisi beffardi di quelli che assistettero allo spettacolo del rimpatrio forzato verso Haití.

In quel venerdí 13 maggio, giorno di mercato a Dajabón, Filomena ricorda pure di aver ricevuto qualche battuta di scherno da parte di alcuni haitiani. Insomma, un giorno che vorrebbe poter dimenticare.

Io invece penso a quest'anno che è trascorso, alle persone che ho conosciuto e alla realtà che mi circonda. Miseria e voglia di tirare avanti; il giorno per giorno che fa a botte con la speranza di un futuro migliore.

Mi guardo intorno e non trovo risposte. A due passi gli uni dagli altri, si vedono dei dominicani scolarsi l’ennesima bottiglia di rum, mentre gli haitiani giocano a domino e chi perde si infligge delle colorate punizioni con le mollette del bucato.

© giannidalmas© giannidalmas

Dall’altra parte della strada, donne e bambini al lavoro, di domenica, alle prese con dei piselli. Anzi no, con tanti, tantissimi piselli: quando il catino sará colmo fino all’orlo potrà essere venduto a 10 pesos... Con quei soldi, penso, ci potranno comprare due bottigliette d’acqua (pulita), ma gli mancherebbero altri 5 pesos per comprarsi una Cola Real (l’alternativa dominicana alla Coca Cola).

Continuo a pensarci su, e mi rendo conto che sono fuori strada. Devo ritornare piú spesso in questi batey, per “imparare guardando” il sorriso di questi bambini.


© giannidalmas© giannidalmas

venerdì 2 giugno 2006

.::UN giorno normale


[se non avete l'ADSL, scaricate il video cliccando qui]

Un "normale" giorno di mercato sulla frontiera dominico-haitiana... il Rio Massacre, gli immigrati illegali, il riso di contrabbando e tanta vita!
Dopo un anno e mezzo su questa frontiera, il primissimo esperimento video, con un saluto speciale.