domenica 17 aprile 2005

.::L'intervista (2)

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Christian Jean e il rancho dove vive con gli altri braccianti

1.
Ci avvicinavamo sempre piú alla capanna dal tetto di paglia, il famoso rancho, la casa di tutti gli haitiani che lavorano nei campi dominicani. Eravamo solo a pochi metri quando ci siamo accorti che si trovava dall’altra parte del canale: per arrivarci bisognava attraversare un ponte fatto di pali e sacchi di sabbia.
Alejandro mi batte sulla spalla indicandomi un punto dove fermarmi: attraversarlo in due, sulla moto, neanche morti. Per fortuna lui ha la vista buona, e laggiú, lungo la strada che fiancheggia il canale dalla nostra parte, riconosce una moto, sicuramente quella di don Ramón. Solo il padrone puó avere la moto, pensavamo.
Spegniamo il motore prima di oltrepassare una tubatura che attraversava di netto la strada: sulla destra sbuffa una vecchia pompa idraulica intenta a spingere l’acqua del canale dentro la risaia. Pochi metri a piedi e raggiungiamo il padrone della moto: Alejandro gli rivolge un saluto, ma la risposta non si sente. Quasi come non ci fossimo, continua a spostare grosse manciate di fango per far defluire l’acqua e poi, sempre a testa bassa, ci chiede cosa stiamo cercando. «Don Ramón, don Ramón Tapia Monción, il padrone della risaia», ripete Alejandro, alzando un po’ la voce.
Nessuna reazione: fissando con lo sguardo i mulinelli d’acqua tra i suoi stivaloni alti, ci dice che dobbiamo tornare un altro giorno, don Ramón é andato in paese per degli affari.
Alejandro non fa un passo, e dopo un attimo, quell’uomo che stava quasi immerso nel fango e con la mani piene di una melma nera come la pece, sussurró: “Perché lo cercate?”. Alejandro mi lancia allora un’occhiata e un mezzo sorriso: sembrava che sapesse tutto fin dall’inizio, e anch’io non c’ho messo molto a ripensare a quelle vecchie scene dei film western. Quando iniziamo a spiegare la storia dell’haitiano al quale avevano rubato 40 mila pesos, don Ramón (proprio lui) scopre le carte: “Soy yo”.
Come rassegnato a dover parlare, comincia a risciacquarsi le mani e ad avvicinarsi all’argine. Io preparo la macchina fotografica e, guardando la borsa appoggiata ai miei piedi, vedo i pantaloni ricoperti di tante piccole macchie nere: venti, trenta zanzare per gamba se ne stavano lí tranquille, come se sapessero giá che i pantaloni non sarebbero stati un vero ostacolo. Me le sono scrollate di dosso un paio di volte, senza effetto: per tutta la durata dell’intervista ho ripensato al 2002, quando ancora credevo alla bellezza dei Caraibi e alle temperature da pantaloncini corti tutto l’anno. Me ne stavo lí a fotografare e a lottare con quei vampiri, mentre don Ramón rispondeva alle domande di Alejandro: ogni tanto si accorgeva di una zanzara che lo stava pungendo su un braccio e da buon campesino la lasciava fare. Quando sentiva il pungiglione entrare, allora si avvicinava lentamente con l’altra mano senza interrompere il discorso e, indicandola con l’indice, la schiacciava col solo polpastrello fino a farle uscire una goccia di sangue.
Parlava con serenitá don Ramón, avendo abbandonato per un momento la diffidenza tipica dei campesinos. Anche noi avevamo capito subito, dopo poche parole, che non eravamo di fronte al classico padrone: certo, la pistola alla cintola non era un buon argomento, ma quello che ci disse testimoniava il suo buon carattere.
Christian Jean (ecco finalmente il nome dell’haitiano) era il “caporale” che gestiva tutti gli altri braccianti haitiani che lavoravano per lui. In gergo campesino era il capataz, e lavorava lí da piú di otto anni, senza mai dargli problemi. Quando Christian gli disse che nella notte erano arrivati tre militari e si erano portati via tutto, don Ramón era tentato di non credergli.
Appena il giorno prima gli aveva dato 40.800 pesos perché pagasse i quindici haitiani che si trovavano ancora nel rancho dopo 5 mesi di preparazione della risaia. In sedici erano stati testimoni del furto, tutti erano stati minacciati e derubati di quello che avevano. Era la paga di 156 giorni di lavoro, meno di 18 pesos al giorno, poco piú di mezzo dollaro: nell’insieme era un capitale.
Don Ramón ripensó a quel piccolo pezzo di terra che gli aveva regalato qualche anno prima perché seminasse il riso per conto proprio; ripensava a tutte le volte che Christian se n’era ritornato ad Haiti per vedere la famiglia, e a tutte le volte che aveva fatto ritorno, puntuale, senza dire una parola. Otto anni erano sempre otto anni.
Don Ramón alla fine aveva deciso di credergli, e allora chiese al compare, don Euclides Valdez Díaz, di portarlo fino alla Fortaleza Beller di Dajabón, sede del quartier militare della provincia, per trovare i militari che “si erano permessi di portare via i soldi al suo haitiano”.

2.
In quel momento del racconto, si avvicina una moto, guidata da un haitiano, scalzo e con una pala sotto al braccio. Don Ramón gli aveva comprato una moto: Christian era l’unico haitiano che poteva dire di avere una moto solo per lui.
La lascia vicino alle altre due, la nostra e quella di don Ramón, e poi si avvicina timido ma camminando dritto verso la risaia, come se avesse troppo lavoro per fermarsi a parlare. Lo richiamiamo e gli spieghiamo perché eravamo arrivivati fin lí. «Raccontagli quello che ti é successo», lo rassicura il padrone, e cosí inizia a parlare, con una leggera inflessione creola mista a una forte cadenza dominicana, tipica di chi ha passato tutta la vita a lavorare la terra degli altri, da questa parte dell’isola.
All’interno della Fortaleza era successo l’impensabile: grazie alle amicizie influenti di don Euclides, il capitano di turno aveva fatto chiamare a rassegna i militari presenti, e Christian li aveva riconosciuti subito: «C’era quello e anche quello. Manca il terzo!». Il terzo, il cui nome era stato trovato nella lista di chi era di guardia quella notte a Gozuela, scoprirono che si era dato malato e aveva chiesto due giorni per andare dalla famiglia, a Santo Domingo. A quel punto, ecco l’imprevisto: il capitan Aquino, con la scusa di continuare gli accertamenti, decide di trattenere l’haitiano e lascia andare don Euclides, che cerca invano di opporsi.
Christian racconta delle minacce verbali, di come l’abbiano messo a terra e ammanettato alla gamba di una branda della camerata: i militari tutti intorno, a farsi le solite risatine. Mentre si getta a terra per farci rivedere quello che era successo, mi sono sentito i brividi scendere lungo la schiena. La normalitá con cui si svolgeva quella scena mi faceva star male.

Christian Jean simula la condizione all'interno della Fortaleza

Fortunatamente, grazie alla chiamata di un generale amico di don Euclides, il capitan Aquino era stato costretto a trasferire Christian al distretto di polizia: l’haitiano che aveva subito il furto, ora si trovava comunque dietro alle sbarre.
A quel punto entra in scena Fernando, il sergente mezzo-americano che avevo visto al mattino.
Era stato lui a ricevere i militari con l’incredulo carcerato, e li aveva rispediti subito all’ospedale perché il medico di turno firmasse un certificato di buona salute. Troppe volte erano arrivati malconci gli haitiani che passavano per la Fortaleza Beller.
Al loro ritorno, Fernando aveva giá chiamato il console haitiano, Leslie Debrosse, che ottenne il rilascio immediato.
A un solo giorno da quei fatti, Christian sembrava tranquillo, come se quello che gli era successo fosse solo uno di una lunga serie di abusi oramai dimenticati: non parlava nemmeno dei soldi che avevano perso, forse perché don Ramón, per quanto buono, non aveva intenzione di sborsare di nuovo quella cifra. Agli altri quindici haitiani era andata male, ma almeno non ci era scappato il morto.
Alejandro e io, nel ruolo di chi lavora per la tutela e la promozione dei diritti umani, non potevamo fermarci lí, dovevamo cercare giustizia fino in fondo: se i tre militari erano stati finalmente rinchiusi nel carcere della Fortaleza in attesa di sanzioni, bisognava assolutamente formalizzare la querela per portarli davanti a un tribunale civile. Solo cosí avremmo potuto ottenere una sentenza esemplare, l’inizio di un nuovo corso nella triste realtá di questa frontiera.
Sono passati molti giorni da allora, e questo post é stato rinviato fino ad oggi per la volontá di dare il lieto fine a una storia che forse, tutto sommato, non é diversa da tante altre. Don Ramón non ha risposto al telefono e non si é fatto rintracciare per quasi due settimane: alla fine, contattato da Alejandro, ha fatto capire di non voler sporgere querela. Lo stesso Alejandro mi é sembrato demoralizzato: «Se non la sporge lui, mica possiamo farlo noi!».
É questo il lieto fine della storia? Riflettendoci bene, e ricordando alcuni passaggi di quell’intervista, fatta in un pomeriggio di sole e di brividi lungo la schiena, spero proprio di sí. Prima di andarcene, don Ramón ci aveva detto una cosa: stava pensando di comprare una pistola a Christian, perché «un haitiano che accusi apertamente un militare, non é sicuro in nessun posto. Quando ritorneranno, dovrá potersi difendere».

lunedì 4 aprile 2005

.::L'intervista (1)


Alejandro Robles intervista Christian Jean, sotto gli occhi del padrone, don Ramón Tapia Monción

Un viaggio in moto di quasi un’ora, con Alejandro che faceva da passeggero, e la polvere che contornava gli occhi. Alle tre di pomeriggio il sole sembrava non dare ancora tregua, e l’ombra scarseggiava ovunque. Dopo aver sbagliato strada un paio di volte e chiesto inutilmente altre indicazioni per arrivare alla risaia di don Ramon, abbiamo visto da lontano una baracca col tetto di paglia... eravamo arrivati. L’intervista non era programmata ma bisognava farla ad ogni costo: uno degli haitiani di don Ramon era stato arrestato.
Il motivo? Era andato fino alla Fortaleza Beller e riconosciuto i militari che gli avevano rubato 40 mila pesos.
Tutto era iniziato due giorni prima. Erano quasi le dieci di sera, e Regino (il direttore di Solidaridad Fronteriza) passava per l’ufficio dove di solito rimango fino a notte fonda: lo fa tutte le volte, mi chiede com’é andata la giornata e poi, se la cosa va per le lughe, usciamo al patio e lui si fa una sigaretta...
Questa volta no, era rimasto in piedi a guardarmi, poi mi disse: «domani mattina bisogna che tu vada alla polizia perché hanno arrestato un haitiano: dice che tre militari gli hanno rubato 40 mila pesos, ma la polizia lo continua a trattenere... dobbiamo intervistarlo prima che lo riportino alla Fortaleza, prima che gli mettano le mani sopra».
Regino non voleva rivelare la fonte della soffiata, e la sua calma mi tranquillizzava. Abbiamo lasciato passare cosí la notte, e alle 8 eravamo sulla porta della stazione di polizia di Dajabón, con i cartellini di riconoscimento di Solidaridad Fronteriza, carta, penna e macchina fotografica: Jonathan e Alejandro entravano per primi, mentre io me ne stavo a due passi di distanza... sapevo l’effetto di un “gringo” in quei posti. Cercavo di non essere troppo visibile, perché Alejandro doveva farsi dire dove stavano trattenendo l’haitiano, la mia presenza poteva irrigidirli.
In quel momento mi arrivó una pacca sulla spalla che quasi faceva male. Era Fernando, l’avevo conosciuto qualche giorno prima, durante la visita del Procuratore Generale: continuava a parlarmi in inglese, lui, che era ritornato al paese per assistere la madre dopo aver vissuto 37 anni negli Stati Uniti. Lo ricordavo con addosso una polo delle forze speciali di sicurezza e la colt nella fondina di ordinanza. Quella mattina invece sembrava abusare un po’ troppo del suo status di dominican-york (i “ricchi” dominicani emigrati a New York): portava maglietta e infradito, aveva l’occhio un po’ spento e la colt che si aggrappava pesante all’elastico dei bermuda corti. Salutó anche gli altri con un sorrisone e qualche parola in inglese, e subito ci disse che quella storia dell’haitiano era proprio una vergogna: «i militari non possono mica trattare cosí un haitiano, prenderlo e sbatterlo in gabbia senza un motivo!» Fernando era sincero: ci eravamo scambiati pure qualche parola in spagnolo il giorno che ci eravamo consciuti, ed effettivamente avevo capito che era un sergente apposto, gli stava a cuore la sorte dell’haitiano, e di tutti gli altri, suppongo.
Iniziavo a pensare che fosse lui l’informatore di Regino, quando lui stesso mi disse di aver avvisato la sera prima il console di Haiti e di aver risolto la faccenda: l’haitiano era libero. Fernando iniziava di nuovo a parlarmi in inglese, ma noi avevamo bisogno di sapere come fosse andata veramente: due parole ben piazzate, un’altra pacca sulla spalla e la stretta di mano con lo schiocco delle dita, come si fa da queste parti, ed ero giá sulla moto pronto per andare dal console.
Al consolato abbiamo fatto presto: lo stesso console ci disse che proprio quella mattina avrebbe portato l’haitiano e il suo padrone (“padrone”!) al generale dell’esercito per risolvere legalmente la cosa, e noi non potevamo andare con lui: per ragioni diplomatiche, non poteva “mischiarsi” con una ong locale dominicana. Decidiamo cosí di ritornare alle nostre faccende, sapendo che per lo meno non c’erano rischi imminenti, ma nel pomeriggio bisognava cercare di parlare con questo haitiano, del quale il console non ci aveva voluto rivelare il nome...
(continua)

venerdì 1 aprile 2005

.::Il "secondo reddito"


Sfilata in maschera al carnevale di Santiago de los Caballeros

Uno deve pur cercare di sopravvivere... peccato che il camioncino che qui chiamano "discomobil" non fosse mio! Ma devo dire che ci sto pensando, non si puó mica lasciar marcire i soldi in banca, no?
Ma, chi era Gianni? Aspettate che faccio il numero, poi vi dico...