mercoledì 30 marzo 2005

.::Ricapitolando...


Dajabón: ponte della dogana sul Rio Massacre, placido testimone della "mattanza" di 25 mila haitiani ordinata nel 1937 dal dittarore dominicano Trujillo per dominicanizzare la zona di frontiera con Haiti

E sono cinque... non é che io li stia contando, questo no: a cosa servirebbe? Di mesi lontano dall’Italia ne passeró ancora molti, é solo che per il momento é piú facile contare questi. Di certo sono passati come un fulmine: la settimana di addestramento a Londra, il mese a Santo Domingo, il mese e mezzo ad Haiti e poi ancora a Santiago, di nuovo a Santo Domingo e finalmente Dajabón. Piú di tre mesi con le valige sempre pronte, prima di poter entrare a far parte di Solidaridad Fronteriza, organizzazione di base del Servizio gesuita per i rifugiati e i migranti (SJRM), in qualitá di Advisor in Communication and Human rights (dimenticavo di dire che l’ong che mi ha contrattato é l’inglese CIIR – Istituto cattolico di relazioni internazionali, che peraltro non mi ha ancora ufficilamente inserito nel suo sito... forse temono che io "scoppi" e chieda di tornarmene a casa!).
Dajabón rimane caoticamente quella cittadina affacciata ad Haiti che avevo conosciuto nel 2002: un ponte di frontiera sul Rio Massacre sotto il quale passano le migliaia di haitiani in fuga dalla miseria; l’onnipresente Fortaleza Beller con i suoi militari in mimetica o in borghese ai quali é meglio stare attenti, e un mercato binazionale che si apre i lunedí e venerdí ad ogni sorta di violazione da parte degli stessi militari, e non solo.
Oggi le cose sembrano andare un po’ meglio, e questo lo si deve al monitoraggio garantito dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani, Solidaridad Fronteriza in testa. Per rafforzare questa posizione, il mio lavoro sará quello di formare il personale di SF affinché possa utilizzare al meglio i mezzi di comunicazione di massa come strumenti per la tutela attiva dei diritti. I media nella loro versione di watchdogs (cani da guardia, sentinelle) della democrazia: un traguardo difficile e lontano, soprattutto in un contesto dove gli interessi politici ed economici legati alla presenza dei lavoratori immigrati haitiani sono piú importanti di qualsiasi diritto umano.
A questo punto dovrei iniziare veramente a fare due conti: se ormai sono passati cinque mesi e il progetto durerá due anni, per riuscire a fare qualcosa di concreto sará meglio che mi metta giá a richiedere l’estensione per un altro anno!

sabato 19 marzo 2005

.::Sulla strada giusta, con qualche morto che si poteva evitare


Nick Brooke affacciato alla "cella vecchia", nel carcere di Dajabón

No, niente incidenti stradali... la strada giusta a cui mi riferisco é quella che sembra aver preso il governo dominicano in tema di prigioni.
Giá da tempo esiste un progetto chiamato Parme (Proyecto de apoyo para la reforma y modernización del estado) che prevede il miglioramento del sistema penitenziario, attualmente allo sfascio.
Non entro nei dettagli solo perché non li conosco (eheh), peró é un dato di fatto che, dopo la tragedia di Higuey, la macchina della riforma ha ripreso a camminare. E, d’altro canto, non poteva non essere cosí: i morti di quel lunedí nero sono saliti a 136 e ben 52 cadaveri non sono nemmeno stati reclamati dalle famiglie. Non sempre si é trattato di cattivi rapporti con i famigliari: molte volte uno finisce in carcere e semplicemente non riesce a comunicarsi con la moglie o la madre... Molte volte si finisce in carcere senza nemmeno essere colpevoli: in Dominicana, quando ci si trova in presenza di una querela penale contro qualcuno, il giudice opta il piú delle volte per il carcere preventivo, e quando sei dentro sei dentro, nella cella comune insieme ad assassini e rubagalline.
In quel rogo erano quasi 100 i reclusi in attesa di giudizio: chissá quando si fará luce sui casi particolari, su ogni povero disgraziato che non doveva essere lí quella notte.
E cosí, in attesa di accertamenti che molti hanno paura di fare, le “autoritá” hanno deciso di venire fin quassú a Dajabón, su quella frontiera che é solo a un passo, ma é piú lungo della gamba: attraversarla, anche solo mentalmente, é cosí difficile... di lei si ricordano solamente quando si sta per toccare il fondo.
L’elicottero presidenziale li ha sbarcati direttamente nel recinto militare della Fortaleza Beller, dentro la quale c’è il carcere civile (!!!). Nell’ordine sono scesi: l’ambasciatore inglese, il direttore della scuola nazionale penitenziaria, il Procuratore generale della Repubblica e l’assessore inglese per la riforma del sistema penitenziario, Nick Brooke (nella foto). Non ci hanno nemmeno provato ad entrare nella cella vecchia: ci hanno solo buttato un occhio, fatto qualche domanda... ma tanto la situazione di quella cella si vede all’istante, é tutta lí, sudicia e brulicante di uomini (tra i quali un pazzo che non perde occasione per abbassarsi i pantaloni, alla faccia del self control inglese).
Nella cella nuova, inaugurata meno di un anno fa, la stuazione é migliore: Brooke finalmente sembra aver convinto gli altri a trasformarla nella cella di detenzione dei carcerati preventivi: una persona che non sia dichiarata colpevole non merita la cella vecchia... e i colpevoli si? Vabbé...
Poi arriva il nostro momento, letteralmente “Arrivano i nostri!”. Per piú di una settimana abbiamo lavorato sul documento da presentare alle autoritá: Solidaridad Fronteriza chiede questo e questo, e poi ancora quest’altra cosa e, se si puó, pure quest’altra. Mezz’ora di colloqui, e quello che ci concedono giá da subito é:
- la liberazione di 6 haitiani che si trovano ancora in carcere perché, dopo aver scontato la pena, non avevano i soldi per pagare la multa accessoria (per una multa di 30 euro, si puó rimanere dentro anche due anni!);
- l’inizio della costruzione di un centro di accoglienza per donne vittime di abusi, considerando l’alta percentuale di casi riscontrata nella zona di frontiera;
- la preparazione di corsi di lingua (creolo haitiano) per i nuovi agenti penitenziari, ai quali Solidaridad Fronteriza ha giá dato corsi di Diritti Umani e di Radici della dignitá umana.
Beh, non molto, considerando che altre cose come la ristrutturazione e pulizia della cella vecchia, la costruzione della biblioteca interna, la costruzione di altri bagni e docce, l’inizio di corsi di formazione professionale vengono sempre promesse e mai mantenute.
Peró stavolta ci accontentiamo, e un pesiero lo facciamo ai 136 morti di Higuey.
Delle volte penso a una cosa, come se la stessi vedendo in un film. Un incidente in macchina: tu hai ragione, lui ha torto. Lui ha le costole rotte perché, ubriaco com’era, non aveva messo le cinture. Lui finisce in ospedale per farsi fare le lastre, ma é mezzo intontito dai tranquillanti e dal rum che si era bevuto prima. La polizia non lo puó interrogare, ma tu sai che hai ragione, e glielo spieghi. Loro ti credono, e nello stesso momento ti mettono in carcere: si chiama arresto preventivo, da queste parti. Due sono le ragioni: la prima é che tu potresti essere il vero colpevole, e fin qui ci siamo. La seconda é che i familiari dell’ubriacone sanno giá, perché LORO lo conoscono (LUI non puó aver fatto una cosa del genere!) e quindi il colpevole sei sicuramente tu. Ora che ci pensi, la polizia ti sta facendo un piacere: tu rimani in cella finché l’altro non esce vivo dall’ospedale e chiarisce la cosa ai parenti, che sennó ti linciano sul posto. É giá capitato, lo sanno tutti. Ma qui non ci siamo piú, perché tu potresti essere ad Higuey questa notte, seduto sulla brandina della cella pensando solo alla macchina che quell’ubriacone ti ha appena sfasciato. Poi inizi a sentire l’odore acre del fumo, ed é l’inizio della fine.

giovedì 10 marzo 2005

.::Un blog dalla frontiera, e pensare che avevo quasi perso la speranza...


Nel carcere di Dajabón, all'interno del complesso militare "Fortaleza Beller"

... poi invece uno capisce che è ora di dire basta e invia un post. Ero pronto da quasi un mese, aspettavo solo il momento giusto e, perché no, anche la foto giusta: quella capace di raccontare in un attimo dove vivo e perché faccio quello che faccio.
Volevo quella foto di cui avevo sentito scattare il click nel carcere di Dajabón: il dito era quello di Jonas, fotografo belga alle prese anche lui con la frontiera. La sua era stata una foto fatta alle spalle, in un posto dove avere un amico “alle spalle” ti fa stare piú tranquillo. Beh, eccola, arrivata oggi, a un mese e qualche migliaia di km di distanza: mi ricorda quel giorno, il carcere e i suoi “ospiti”, l’otturatore della Rollei che si é inceppato due volte, le facce e i tatuaggi, i rullini che finivano troppo presto. Giá, i rullini: tutti andati oltre oceano nella borsa di Jonas, con la speranza di rivederli presto e ben sviluppati. Nel frattempo le foto che mi stanno riempiendo gli occhi sono quelle della tragedia che tre giorni fa ha fatto 134 morti nel carcere di Higuey, sud est dell’isola.
Era la notte di una domenica che stava per trasformarsi in un pessimo lunedí: lotta tra bande per lo spaccio interno della droga, revolver che circolano liberamente, la polizia che si fa prendere la mano e lancia un lacrimogeno di troppo, provocando un incendio che si rivelerà un olocausto. Per tre giorni si é discusso, accusato, tentato di insabbiare, ristabilito l’ordine tra i giornalisti che si erano dimenticati chi sono i veri padroni: finalmente la versione ufficiale ha attribuito le sole colpe alle bande, mentre si continuano a trovare cadaveri con i fori dei proiettili della polizia.
Per fortuna c’è ancora chi osa riconoscere che uno dei problemi seri è il sovraffollamento di queste carceri, con oltre due terzi dei detenuti ancora in attesa di giudizio e delle strutture che non si possono certo definire “modello”. E cosí il presidente Fernandez ha un bel “d’affare” nel portarsi a casa i 300 milioni di dollari che un gruppo di impresari spagnoli vuole investire nella modernizzazione del sistema carcerario domenicano. Un affare per tutti... ¿nessuno escluso?
Tornando a me: cosa ci facevo nel carcere di Dajabón alle 8 di mattina di un normale giorno di lavoro? Avevo deciso di unirmi al gruppo di colleghi che organizzava l’Operativo de limpieza: abbiamo raccolto spazzoloni, pennelli e vernice e siamo andati al carcere cittadino per dargli una rinfrescatina con l’aiuto dei reclusi. Era la mia prima volta, lo giuro. Forse per questo, di quel giorno ricordo due cose: ho fotografato come poche altre volte nella mia vita, con la speranza di non rivedere mai piú degli uomini in quelle condizioni; ho parlato come poche altre volte nella mia vita, con la certezza che non sarà mai piú la stessa vita.